L’orgoglio di Torino

Raffaella Polato du Corriere.it

Il giorno dell’orgoglio. E della sfida. Quella però comincerà doma­ni: oggi Torino tiene il solito profilo basso, lo sa che il merito è tutto di Ser­gio Marchionne, ma intan­to che serata. Quattro anni fa il Lingotto era dato per spacciato. La Fiat era la pre­da di cui spartirsi le spo­glie. L’auto italiana poca co­sa, la sua tecnologia snob­bata. Ora tenta la conqui­sta dell’America. Chiamata a salvare l’auto nel Paese che l’auto l’ha inventata. La città che pensava di sparire dalla mappa mondiale del potere motoristico scopre che ora ne è, e potrà esser­lo anche passata l’euforia della diretta sulla Cnn, una delle capitali. Forte pro­prio di quello che si diceva fosse il suo lato debole: le piccole vetture con cui, pa­role di Barack Obama, «ha dimostrato di saper costrui­re l’auto pulita del futuro». Grazie a Marchionne, sì, il manager «non convenzio­nale » che quattro anni fa l’ha portata oltre il baratro. Ma grazie, insieme, a quel­la tecnologia (tutta italia­na) che lui ha ritirato fuori e però c’è sempre stata. Ce n’eravamo dimenticati. Ci eravamo scordati che sia­mo un Paese fondato sul­l’industria. La piccola e la media, la nostra ossatura. E la grande. Quella che può fare ricerca. Che fa da trai­no. Che muove tutto un si­stema.

Fiat è rimasta una delle poche. Oggi che sbarca ne­gli Usa, quasi invocata dal loro Presidente, l’orgoglio è giusto ed è di tutti. Anche se fino all’altro ieri proprio da dentro l’industria parti­vano insensate contrapposi­zioni piccoli-grandi, gli in­centivi al settore — peral­tro molto, molto più bassi di quanto nel frattempo ar­rivava nel resto d’Europa e negli stessi Usa — scambia­ti per «aiuti alla solita Fiat». La risposta di Marchion­ne è stata Chrysler. Lo sareb­be stata comunque. Il Lin­gotto che lui ha risanato, con il riconosciuto, deter­minante appoggio delle banche (e i risultati dimo­strano quanto possa fare l’Italia quando si muove co­me sistema-Paese), da solo avrebbe magari potuto so­pravvivere ma di sicuro non prosperare nel mondo dell’auto dopo la grande cri­si. Come dice lui: Chrysler ­e domani, chissà, Opel o chi per essa — «è una ne­cessità ». Come dice l’azionista, John Elkann: «Meglio, nel caso, una quota minore in una Fiat più grande ma for­te ». Che poi alla fine è quan­to sostenevano il nonno, l’Avvocato, e soprattutto lo zio Umberto Agnelli. E qui però finisce l’orgoglio e co­mincia la sfida. Subito. Adesso. Marchionne ha dimostra­to una volta che «si può fa­re ». Ora la scommessa è più che moltiplicata. Non sarà uno scherzo rivoltare Chrysler, integrare due (per ora) aziende, rimpolpare quella squadra snella che con lui ha firmato il succes­so Fiat ma che a questo pun­to lo sarà un po’ troppo, snella. Non tutti, nemmeno lui, possono reggere più di tan­to il pendolarismo Lingot­to- Auburn Hills. O forse sì?