Giovani di talento per far crescere Torino

Via Repubblica

<!–
OAS_RICH(‘Middle’);
//–>

La strada di un proficuo ricambio generazionale della classe dirigente cittadina passa per la capacità di reinventarsi che Torino ha dimostrato negli ultimi anni, e che non deve restare un´opera incompiuta. E´ lo sguardo che Elisa Rosso, direttrice di Torino Internazionale e studiosa di sociologia urbana, lancia sul recente passato della città e sulle sue difficili e appassionanti prospettive future. Rosso, 33enne torinese, è tra i fondatori di NewTo e parteciperà al dibattito “L´Italia da sbloccare. E Torino?”, che si terrà domani all´Auditorium della Fondazione Sandretto.
Rosso, secondo lei c´è un problema di blocco del ricambio generazionale a Torino?
«C´è una difficoltà oggettiva in Italia a dare corso al ricambio generazionale, tutti i dati lo indicano. Credo però che Torino rappresenti, pur in un contesto generale difficile, una città che sta provando a sbloccare queste dinamiche».
A cosa è dovuta questa capacità?
«Negli ultimi dieci anni Torino ha dovuto reinventarsi come città non più solo industriale, e questo ha favorito l´accesso di figure ed energie nuove in posizioni dirigenziali. Ma da qui a un meccanismo che funziona e ad un ricambio generazionale facile c´è tanta strada. E´ importante continuare. Credo che ci sia stato un elemento di discontinuità che è necessario coltivare, soprattutto in un momento di crisi in cui è ancora più necessario fare squadra, oltre la contrapposizione tra giovani e vecchi».
Al bando, quindi, il conflitto tra attuale classe dirigente e giovani leve?
«E´ vero quello che dice il sindaco, che il ricambio generazionale non avviene senza conflitto, ma secondo me siamo ancora allo stadio precedente: creare, spinte, possibilità, forze propulsive. L´idea del ricambio generazionale è per crescere le nuove leve, per favorire la creazione di spinte innovative».
Come si mantiene la rotta del percorso di reinvenzione seguito dalla città negli ultimi anni?
«Credo che a Torino ci siano le potenzialità ma manchino le possibilità. Mancano occasioni d´incontro e di scambio reciproco, soprattutto nelle professioni e nell´industria. I meccanismi non sono sufficientemente oliati. NewTo vuole proprio fare questo, creare nuove reti per stimolare la crescita in un clima di confronto reciproco».

Italia fanalino di coda per l'innovazione

Via Newsitaliapress

chaplin.jpg

Un Italia a tinte chiaro-scure quella uscita fuori dal rapporto del 2008 ‘Innovazione di sistema’ , rapporto stilato dalla ‘Fondazione Rosselli’ in collaborazione con il ‘Corriere della Sera’.

Il nostro paese rimane comunque in fondo alla classifica dei 19 stati appartenenti all’Ocse, recuperando un posto, però, rispetto al 2007 passando dal 17° al 16° posto.

Nella speciale classifica, comandata sempre dalla Svezia seguita da Finlandia, Danimarca e Stati Uniti, risulta che i paesi del nord Europa e americani sono ancora i primi circa il miglior utilizzo dei capitali umani, della ricerca scientifica, della modernizzazione di infrastrutture e trasporti, della produzione di brevetti e di alta tecnologia.

Secondo Riccardo Viale, responsabile della Fondazione Rosselli, “La nota positiva del rapporto 2008 è data dalla vitalità mostrata dal settore privato, vale a dire la capacità delle imprese di esportare brevetti e innovazione. Per la prima volta assoluta, infatti, l’Italia fa registrare una “bilancia tecnologica” positiva. E a questo si aggiunge il raddoppio dell’attività di venture capital, segno che sono stati individuati progetti da finanziare più interessanti rispetto al passato”.

Capostipiti di tale successo tutto italiano sono la Geox, la Benetton, la catena Autogrill molto presente negli aeroporti americani con grandi brand e l’Acotel che ha ‘inventato’ gli sms.

Questa è la vera eccellenza italiana circa lo sviluppo e la ricerca affidata, però, quasi esclusivamente ai privati.

I problemi più seri iniziano per il nostro paese quando si analizzano i fattori inerente l’influenza della sfera pubblica a causa degli errori commessi dallo Stato con investimenti per l’innovazione sempre più esigui.

Non a caso il livello del capitale umano è ancora il più basso tra quello dei 19 paesi esaminati e per quanto riguarda il “sostegno finanziario alle attività di ricerca”, per le “dotazioni infrastrutturali di base”, per l'”efficienza dei processi di trasferimento tecnologico tra università e imprese” si è sul fondo della classifica così come per quanto riguarda il numero di laureati, di ricercatori scientifici e per esportazioni tecnologiche.

Insomma un disastro al quale bisogna porre subito rimedio

Si tratta per la sede Motorola torinese a Telit

Via Vittorio Pasteris

Paolo Griseri su Repubblica porta buone nuove per il caso della sede Motorola torinese: “E’ ufficiale: il centro Motorola di Torino interessa alla Telit, la società triestina di telecomunicazioni di cui è presidente Chicco Testa. La particolare attenzione, spiega Testa, nasce dalla qualità del personale improvvisamente abbandonato dalla Motorola al suo destino: 370 ingegneri specializzati in telecomunicazioni. Gli incontri sono iniziati nelle scorse settimane e proseguiranno. Si arriverà alla vendita? “Stiamo trattando – rivela Testa – ed è prematuro, al momento, fare previsioni. Entro gennaio arriverà la decisione”.

La vicenda della Motorola aveva fatto indignare il sindaco di Torino. Non tanto per l’ improvvisa decisione di chiudere, quanto per la scelta di farlo senza preavviso dopo aver pompato indirettamente quasi dieci milioni di euro dalle casse pubbliche sotto forma di sovvenzioni e aiuti di diverso genere. «Se non si risolve la questione, giuro che mi incateno davanti all’ azienda», aveva detto nelle scorse settimane Sergio Chiamparino suscitando scalpore a livello nazionale. Ora l’ ipotesi Telit sembra essere in grado di risolvere il problema. Chicco Testa, già presidente di Legambiente prima di diventare numero uno di Enel e oggi della stessa Telit e di Roma Metropolitane, appare intenzionato ad approfondire la trattativa.”

Cultura, musei e finanziamenti

Via Vittorio Pasteris

Un modello pluralistico e apolitico, meglio apartititico, vorrebbe veder crescere dal basso le idee per la realizzazione di nuovi insediamenti culturali e museali. Poi sarebbe necessario una valutazione attenta e oggettiva del valore culturale ed economico delle iniziative per giudicare gli eventuali finanziamenti pubblici. E finalmente si passerebbe alla loro erogazione. Ma questo modello virtuoso, chiamiamolo per intenderci bottom-up,  trova purtroppo raramente modo di realizzarsi concretamente.

Buona parte degli investimenti culturali e museali hanno invece una vita top-down dato che le idee, le scelte, i progetti nascono direttamente negli enti pubblici che “decidono strategicamente” quali musei o grandi iniziative culturali occorra lanciare o proporre. A questo punto realizzano progetti, ricercano finanziamenti, scelgono organigrammi, contattano fondazioni bancarie. Hanno staff ipertrofici di consulenti o stipendiati che realizzano iniziative culturali chiavi in mano. L’attività culturale e museale di questo tipo è figlia diretta e legittima degli enti pubblici, non parente di vario grado.

Ora è chiaro che ridurre il budget a queste strutture top-down sarebbe per certi politici come togliere la paghetta ai figli. Qualcuno obietterà: certe attività sono culturalmente ed anche economicamente, leggi alla voce turismo, strategiche. Certo va bene, ma queste attività hanno spesso finanziamenti spettacolari con voci di bilancio pantagrueliche. Meglio per costoro sarà ricevere una delega a ridurre e di molto lo spreco inutile di risorse. E meglio sarebbe togliere personaggi politici spesso imgombanti dal loro management per tutelare una migliore gestione degli stessi

Ridurre i piccoli musei, ad esempio quelli scientifici e tecnologici che spesso si basano sulla passione e sulla grande competenza di grandi personaggi piuttosto che su grandi soldi pubblici, vuol dire ucciderli definitivamente, strozzarli nel loro piccolo e ridotto bilancio. Certo anche in questo caso occorre avere acume e onestà nel verificare chi sia meritevole e chi siano solo scatole vuote, ma è una cura che occorre avere sempre, non solo in caso di ristrettezze.

Pianto accademico

Andrea rossi su Lastampa

Ora che è arrivata la stangata dei 30 milioni di euro facoltà e dipartimenti dell’Università di Torino somigliano tanto a quel condannato che aspetta solo di conoscere l’entità della sentenza. Per loro la sentenza è un numero: quanto dovranno tagliare. Poi dovranno decidere come. E dove.
Nonostante tutto 10 su 13 dei presidi hanno approvato il bilancio. Tre si sono astenuti. «Non era possibile esprimere un giudizio ponderato», spiega Sergio Vinciguerra, preside di Giurisprudenza. «Non ho capito bene se dovevo votare una dichiarazione d’intenti o un progetto di bilancio». Anche il suo collega di Scienze politiche Franco Garelli si è astenuto. «Ho avuto l’impressione che non tutte le voci di bilancio fossero tagliate con la stessa intensità. E non emergeva un progetto di bilancio, esposto e condiviso».
Ora, però, tutti si fanno i conti in tasca. E non è che ci sia molto da scegliere. Le spese, per gli organi periferici, sono da tempo ridotte all’osso. Ma, adesso, la riduzione del 50 per cento dei finanziamenti e l’introduzione del canone d’affitto rischiano di minare un’impalcatura che si regge quasi per miracolo. Già piovono richieste di correttivi. «Alcuni dei criteri andranno rivisti – spiega Anna Maria Poggi, preside di Scienze della Formazione – Fino a oggi la tassa sulle immatricolazioni spettava in parte all’ateneo e in parte alla facoltà; ora si deciso di destinare all’ateneo anche metà della quota spettante alle facoltà. Per chi ha molti iscritti, come noi, è come restare senza ossigeno».
Tutti sanno che i tagli saranno dolorosi. «Docenti esterni, professionisti: ci occupiamo di case history, studiamo cosa succede nelle aziende agroalimentari. E invitiamo i loro dirigenti. Non credo che ce lo potremo più permettere, così come dovremo rinunciare alle visite alle aziende», racconta Vincenzo Gerbi, presidente del consiglio del corso di laurea in Tecnologie alimentari, ad Agraria, una delle facoltà per cui la scure dei tagli sarà più pesante. «I costi delle strutture sono enormi. Il rischio è destinare quasi tutte le risorse per pagare l’affitto di spazi fino a ieri gratuiti».

Porta Susa Sotterranea

Via Vittorio Bertola

Forse non ve ne sarete ancora accorti, perché ne ha parlato soltanto ieri sera il TG Regionale del Piemonte con un servizio, ma oggi è stata ufficialmente aperta la nuova stazione di Torino Porta Susa. Si tratta di un evento storico: è da venticinque anni che le Ferrovie, con i tempi biblici dello Stato italiano, lavorano alla realizzazione del passante ferroviario e della nuova stazione. Il servizio di ieri sera era piuttosto celebrativo, ma si è dimenticato di dire alcune cosette – per esempio, se tutti i treni ora fermano là sotto oppure no. Pertanto, oggi all’ora di pranzo, passando in zona, sono andato a fare un piccolo reportage.

Il risultato è stato scoprire che, come intuibile, la notizia dell’apertura è un tre quarti di bufala: al momento, la stazione è servita soltanto da nove treni al giorno, con destinazione Bra o Chieri; tutto il resto transita dalla stazione vecchia. Infatti, sono aperti soltanto i due binari 5 e 6, e soltanto in direzione Torino Lingotto; il resto del passante e della stazione è ancora da finire, e in certi casi proprio da costruire; anche dentro la parte aperta della stazione, incuranti degli scarsi passeggeri (ok, quando ero lì l’unico treno in un’ora era il regionale per Chieri delle 13:26), ci sono operai ovunque che montano piastrelle e sistemano cavi.

Sull’orario Trenitalia, comunque, la stazione viene indicata a parte, con nome Torino Porta Susa Sotterranea, o abbreviato Torino P.SS; potete quindi effettuare ricerche specifiche da o per essa, anche se generalmente vi verrà proposto di “cambiare” andando alla (normale) Porta Susa mediante “Percorso interno alla stazione”.

Anche solo arrivare alla stazione è difficile: sono aperti soltanto tre ingressi. Uno è identificato come “Ingresso C corso Inghilterra” e consiste in una scalinata (niente scala mobile) sul marciapiede di corso Inghilterra circa all’angolo di via Susa; il secondo, sempre sul marciapiede di corso Inghilterra, si chiama “Ingresso D corso Inghilterra” è circa all’altezza di via Duchessa Jolanda, verso via Grassi, e ha anche la scala mobile (solo in salita) e l’ascensore. Esiste infine un terzo ingresso, che rappresenta l’unica forma di comunicazione con il centro di Torino e con Porta Susa di superficie: si trova nel corridoio dell’ingresso D, dal lato opposto, dove una scaletta di una dozzina di gradini (segno che la stazione è davvero poco in profondità) sbuca direttamente all’estremità sud del marciapiede del binario 3 di Porta Susa, ben oltre la fine della pensilina. Grazie a questo trucco, le due stazioni sono intercomunicanti; ma l’unico modo che avete per sbucare in piazza XVIII Dicembre è riscendere nel sottopasso di Porta Susa vecchia e uscire di lì.

La fine del Venture Capital ?

Via Vittorio Pasteris e via Techcrunch

Last week, something turned. We found out that not only are we in a recession, but it started a year ago. Tech layoffs went into overdrive (12,000 at AT&T, 600 at Adobe, 130 at Real Networks), bringing the total unemployed tech workforce to at least 90,000, by our count.

Even Facebook decided to indefinitely postpone an earlier plan to allow employees to sell some stock privately. One likely consideration in Facebook’s about-face is that outside investors may no longer be willing to buy Facebook stock at the already-lowered $4 billion internal valuation the plan called for, never mind the over-inflated $15 billion that Microsoft got in at last year.

Capital is drying up, and things may still get worse before they get better. So far in this downturn, we’ve seen startups batten down the hatches (as they should) and hope to survive long enough to make it out the other end. But what about venture capital firms? When will we start to see the VC layoffs and fund closures?

It is already happening to some extent. The number of partners listed on some VC Websites is already quietly shrinking. Some new VC funds are having difficulty raising money and even existing funds are running into problems collecting commitments from strapped limited partners.

The carnage on Wall Street is having a trickle-down effect on venture capital firms. The limited partners who typically invest in VC funds—university endowments, pension funds, investment banks, other institutions, and wealthy individuals—are short of cash right now. Harvard’s endowment lost $8 billion in the past four months alone. Many limited partners simply cannot honor capital calls from VCs. (When a VC firm creates a new fund, it does not collect all the money at once. Instead, it receives promises from limited partners that they will invest when the capital is needed).

Rather than face the penalty of default, limited partners increasingly are trying to sell their commitments at deep discounts on secondary markets. Conversely—knowing that they may not be able to call in their chits—VC’s are motivated to slow down their investment activity.

Leggi tutto “La fine del Venture Capital ?”

Il Venture Capital tira nonostante la crisi

Via AgoraVox

Nonostante la crisi finanziaria globale, negli Stati Uniti gli investimenti in “venture capital” – denaro destinato a finanziare settori innovativi a rischio ma ad elevato potenziale di sviluppo – sono scesi solo del 4% rispetto al 2007. Ci sono buone ragioni per credere che, una volta passata la fase recessiva più acuta, proprio da qui ripartirà l’economia mondiale: puntando soprattutto sul nuovo. E’ forse l’esito più augurabile della crisi.

Anche la Cina attrae capitali a rischio. Secondo i dati della Venture Source, una sezione di Dow Jones, solo nella prima metà del 2008 ben 47 venture capital si sono stabilite in Cina creando 63 fondi. Queste compagnie hanno portato su suolo cinese capitali per più di 5 miliardi di dollari, registrando uno strepitoso aumento del +85% rispetto allo stesso periodo del 2007, e hanno investito più di 2 miliardi di dollari in 275 nuove imprese, un aumento del 92.07% rispetto al primo semestre 2007.
Ciò che cambia è la destinazione degli investimenti: i settori in cui si investe, in Cina, non sono tutti innovativi.

Forbes ha identificato undici settori che traineranno l’economia mondiale fuori dalla crisi e che attirano già venture capital. Si parla di clima ma non solo. Su che cosa vale la pena puntare, dunque?

Leggi tutto “Il Venture Capital tira nonostante la crisi”

Il Piemonte? Una dinamo

Bruno Gambarotta nel dossier Piemonte di Lastampa.it

Una molla d’acciaio compressa e pronta a scattare se l’obiettivo merita lo sforzo: potrebbe essere questo il logo per caratterizzare le riserve di energia, accumulate nella volontà e nel carattere degli abitanti, delle nostre tre regioni: Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.

Se invece ci abbandoniamo al gioco delle libere associazioni, una valanga di immagini viene in soccorso della memoria. Rivediamo gli astigiani che, quando è trascorsa una sola settimana dalla disastrosa alluvione del 1994, ricevono la visita del presidente Scalfaro, che resta incredulo perché la città è già stata completamente ripulita e rimessa a nuovo e deve fi – darsi delle descrizioni.

Vediamo una guida alpina che, dopo aver condotto il cliente fi no al rifugio sotto il Cervino, lo saluta e ridiscende di corsa in valle saltando di roccia in roccia come uno stambecco perché un altro impegno lo attende.
Leggi tutto “Il Piemonte? Una dinamo”