Fermo amministrativo dei veicoli registrati

Sarà capitato a tutti di sentire parlare di “fermo amministrativo dell’autoveicolo” e di chiedersi di cosa di tratti e di quali possano essere le conseguenze sul veicolo interessato.

Il fermo amministrativo dei beni mobili registrati altro non è che uno dei procedimenti formali attraverso cui i Concessionari della Riscossione, vale a dire quelle Società alle quali viene affidata la riscossione dei tributi, delle sanzioni amministrative, etc, mediante un’apposita concessione, possono attivare procedure a garanzia del credito degli Enti impositori.

A questo punto occorre precisare che i beni mobili registrati sono quei beni disciplinati dall’art.815 del Codice Civile; si tratta di beni che, per la loro importanza economica, quanto a determinati aspetti della disciplina giuridica, della forma e degli oneri di pubblicità, sono equiparati dal legislatore ai beni immobili e, pertanto, sono iscritti in pubblici registri: sono beni mobili registrati i beni di locomozione e di trasporto come le navi, gli aeromobili e gli autoveicoli.

Un bene gravato da fermo amministrativo non può circolare, non può essere venduto e non può essere radiato dal pubblico registro: pertanto, esso risulta essere, di fatto, inutilizzabile.

Infatti, qualora la Pubblica Autorità dovesse reperire in circolazione un mezzo gravato da fermo amministratore dovrebbe elevare una sanzione amministrativa all’utilizzatore (compresa tra € 714 e € 2.859), emettere disposizione di custodia forzata del bene ed avvisare l’Agente della Riscossione che ha materialmente iscritto il fermo di provvedere al pignoramento del bene.

Il procedimento di fermo amministrativo può essere attivato dall’agente incaricato della riscossione in caso di mancato pagamento di una cartella esattoriale entro 60 giorni dalla notifica della stessa.

Tale procedimento nella prassi si sostanzia nella verifica della titolarità del bene in capo al debitore e nella successiva notifica del c.d. “preavviso di fermo amministrativo”, un provvedimento amministrativo mediante il quale l’ente incaricato della riscossione comunica al debitore che, nel caso in cui non provvederà al pagamento del debito nel termine di 20 giorni, procederà all’iscrizione del fermo sul veicolo individuato.

La mancata comunicazione del preavviso di fermo è motivo di nullità del fermo stesso.

In tale atto dovranno essere riportati alcuni elementi, fra cui: la natura del debito, l’importo dovuto e l’anno di riferimento, il numero della cartella esattoriale e la prova della sua notifica, l’indicazione del responsabile amministrativo, dell’autorità amministrativa presso la quale ricorrere e dell’autorità giudiziaria competente.

In caso di mancato pagamento del debito nel termine indicato nel preavviso di fermo ovvero qualora non venga proposto ricorso avverso il suddetto provvedimento, l’ente potrà procedere con l’iscrizione del fermo sul veicolo nel pubblico registro pertinente (nel caso di un’automobile, ad esempio, il PRA).

Ovviamente anche avverso il provvedimento di fermo amministrativo, così come per il preavviso di fermo, è ammesso ricorso avverso la competente autorità giudiziaria: la giurisprudenza è oramai unanime nel ritenere che si applichino in materia le norme generali in tema di riparto di competenza per materia e per valore, pertanto, tutto dipenderà dalla natura del credito in virtù del quale viene iscritto il fermo.

A titolo del tutto esemplificativo e non esaustivo, nel caso in cui il debito origini dall’irrogazione di una sanzione amministrativa per violazione del Codice della Strada l’autorità giudiziaria competente sarà individuata nel Giudice di Pace, nel caso di debiti di natura tributaria, invece, nella Commissione Tributaria.

Nel caso di più ragioni eterogenee di credito dovranno essere adite le autorità giudiziarie competenti per ciascuna materia e per ciascun valore.

Quanto ai termini per proporre ricorso, anche essi variano in relazione alla natura del debito ed al tipo di vizio.

 

Avv. Raffaella D’Amico

Studio Legale Franzetta Dassano

Riproduzione riservata

Verso la Sharing Economy Act

A seguito delle problematiche legali emerse ed ai momenti di tensione verificatisi talvolta sfociati in violenti episodi di guerriglia urbana, pren­diamo esempio dal caso Uber in riferimento al quale, il Tribunale Civile di Milano con decorrenza maggio 2015 ha disposto il blocco su tutto il territo­rio nazionale della prestazione del servizio considerandone gli operatori  alla stregua di concorrenti sleali, valutandone anche la possibile aggravante dell’elusione fiscale. Vedi anche il caso Airbnb piattaforma telematica, il quale continua a subire attacchi da parte di albergatori e di Associazioni di Categoria.

Per motivi appena brevemente indicati, sembra una necessità impro­rogabile, l’adozione di un quadro normativo aggiornato, in grado di tenere in conside­razione e disciplinare i cambiamenti che le piattaforme on line stanno ap­portando giorno dopo giorno. Nonostante l’accreditamento de facto del fe­nomeno, risulta più che evidente l’assenza di regole chiare ed omoge­nee, in grado di regolare in modo univoco la materia.

E’ questo, dunque, un fenomeno talmente importante da avere attirato l’attenzione delle Istituzioni nazionali e sovranazionali. La Commissione Europea, nel giugno 2016, ha emesso due Comunicazioni COM (2016) 288 e COM (2016) 356, spingendo in tal modo i paesi membri a definire un in­sieme di regole volte ad eliminare le ambiguità o i vuoti normativi rispetto alle nuove situazioni e fattispecie che si sono create grazie al sempre mag­gior e repentino sviluppo dell’economia collaborativa.

La Commissione, si legge nel documento denominato An European agenda for the collaborative economy, ha apprezzato l’importanza della sharing economy ed ha ritenuto che questa, se promossa e sviluppata in modo responsabile, equilibrato e sostenibile, possa dare un contributo im­portante alla crescita e all’occupazione nell’Unione Europea.

Ciò può avvenire esclusivamente rispettando la normativa nazionale di riferimento. Ma è proprio su questo punto che nascono i primi dubbi. Innan­zitutto perché molti Stati membri non hanno ancora adottato una specifica normativa, secondariamente perché la sharing economy rende meno nette le distinzioni tra consumatore e prestatore di servizi, lavoratore subordinato e autonomo, prestazione di servizi a titolo professionale e non professionale. L’invito che la Commissione rivolge agli Stati membri è quello di riesami­nare la normativa nazionale vigente al fine di garantire che i requisiti di ac­cesso al mercato continuino ad essere giustificati da un obiettivo legittimo e siano anche necessari e proporzionati. Divieti assoluti, continua la Commis­sione, nonché restrizioni quantitative all’esercizio di un’attività costituiscono normalmente misure di ultima istanza che in generale dovrebbero essere ap­plicate solo se e laddove non sia possibile conseguire un legittimo obiettivo di interesse generale con una disposizione meno restrittiva. Gli Stati mem­bri, pertanto, devono agevolare e sostenere lo sviluppo della sharing eco­nomy evitando, laddove non sia del tutto indispensabile, di applicare restri­zioni o veti.

Ed è proprio grazie alla sharing economy che si è potuto assistere alla nascita e allo sviluppo delle cosiddette piattaforme di collaborazione, ossia intermediari che mettono in comunicazione, attraverso un marketplace, i prestatori e gli utenti ed agevolano le transazioni tra di essi. Negli ultimi anni si è registrata una notevole crescita di tali piattaforme. Ognuna di esse è specializzata in una specifica attività. Un primo e significativo passo in tale direzione è stato fatto con la proposta di legge italiana n. 3564 (attual­mente in corso di esame in commissione) presentata il 27 gennaio 2016 alla Camera dei deputati da un gruppo di parlamentari appartenenti all’ “Inter­gruppo innovazione tecnologica”, con il professato scopo di disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi.

Le sopracitate comunicazioni della Commissione è successiva alla ste­sura della proposta di legge n. 3564/2016, e di fatto contiene indicazioni, suggerimenti, ma non direttive e su alcuni aspetti evidenzia i rischi dei possibili divieti. La proposta di legge dovrebbe, quindi, tener conto ed adeguarsi per quanto necessario al contenuto delle Comunicazioni della Commissione.

La proposta di legge contiene anche alcune disposizioni per la promo­zione dell’economia della condivisione, ossia l’utilizzo comune di una ri­sorsa, come ad esempio beni di consumo, mezzi di trasporto, ma anche pro­dotti digitali, spazi ed immobili commerciali e non come la casa e l’ufficio, competenze e servizi di vario genere; inoltre, la proposta suddetta reca di­sposizioni riguardanti anche la relazione peer to peer (ossia il rapporto oriz­zontale tra i soggetti coinvolti che si distingue dalle forme tradizionali di rapporto tra produttore e consumatore, volto a rispondere a nuovi bisogni, tra cui, ad esempio, la crescente necessità di interagire negli scambi in una modalità più partecipativa) e la presenza di una piattaforma digitale che supporta tale relazione fungendo da market place, ovvero un luogo d’incon­tro virtuale in cui, sovente, è presente anche  un meccanismo di reputazione digitale e le transazioni avvengono tramite pagamento elettronico.

La proposta di legge n. 3564/2016 è preceduta da una corposa intro­duzione, prima nel suo genere in Europa e già ribattezzata Sharing Economy Act, abbreviato in SEA, condensata in 12 articoli che costituiscono soluzioni di “compromesso”  tra istanze corporativistiche, liberalismo economico e protezione dei consumatori. L’intento, come detto, è quello di trovare un compromesso in grado di gestire le nuove piattaforme digitali in una logica di integrazione con il mercato tradizionale.

Limitando questo elaborato all’analisi dei punti salienti, il disegno di legge prevede principalmente: l’obbligo di iscrizione delle piattaforme sha­ring ad un registro elettronico nazionale, previa presentazione di un docu­mento di policy aziendale attraverso cui esplicitare le condizioni contrattuali e la devoluzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) del compito di regolare e vigilare sull’attività delle piattaforme di­gitali dell’economia della condivisione. Infatti, attraverso l’istituzione di un registro elettronico, le piattaforme dovranno ottenere l’approvazione proprio dall’AGCM che, in sostanza, valuterà la sussistenza di incongruenze ed eventuali violazioni normative o concorrenza sleale nei confronti dei settori tradizionali. Inoltre, in materia fiscale, è prevista la denominazione del red­dito percepito da attività di sharing economy come «reddito da attività di economia della condivisione non professionale», con applicazione di un’imposta del 10% per redditi che non superino i diecimila euro. I redditi superiori a diecimila euro sono, invece, cumulati con i redditi da lavoro di­pendente o da lavoro autonomo e a essi si applica l’aliquota corrispondente. I gestori operano, in relazione ai redditi generati mediante le piattaforme di­gitali, in qualità di sostituti d’imposta degli utenti operatori.

Di notevole interesse l’articolo 4, che si sofferma su alcuni dettagli che servono a definire cosa rientri nel concetto di sharing economy e che cosa no. Per esempio, non rientrano in questa tipologia i servizi per i quali il ge­store stabilisce una tariffa fissa.

Anche altri paesi europei hanno varato o stanno discutendo normative di regolamentazione, promozione e monitoraggio del fenomeno. In Belgio è in vigore dall’1 luglio 2016 un trattamento fiscale di vantaggio per i redditi marginali dell’economia collaborativa, approvato con la Loi programme du 1 juillet  2016. In Francia, la legge sull’economia digitale in votazione il 27 settembre 2016 al Senato, comprende disposizioni sulla fiscalità degli individui che utilizzano le piattaforme collaborative oltre i 5000 euro.

Nel Regno Unito, il governo già a marzo 2015 ha formulato delle rac­comandazioni basate su un’analisi indipendente con implicazioni anche per la produzione di statistica ufficiale e favorito la condivisione degli immo­bili a Londra attraverso il Deregulation Act, mentre nella primavera 2016 ha incluso nella legge di bilancio uno “sconto” fiscale aggiuntivo per le atti­vità marginali basate sulle piattaforme digitali.

Dott.ssa Luana Tumbarello

Studio Legale Franzetta Dassano

Riproduzione riservata