Neologismi della solitudine ai tempi della cultura elettronica

Quando la realtà non fa rima con identità

Ci sono due parole che, sono pronto a scommettere, molti di noi conoscevano poco o punto.

La prima è la parola Anomia. A prescindere dalle sue origini etimologiche connesse al disprezzo per le norme comuni – che pure è quanto mai attuale, sia come conseguenza delle ingiustizie che come estremo egoismo nel mantenere illimitati privilegi – l’uso contemporaneo del termine si deve a quello che in molti considerano il padre della sociologia della conoscenza e di parte dell’antropologia culturale, ovvero il francese Émile Durkheim (e dopo di lui sarà ripreso da Talcott Parsons e Robert K. Merton). Nei lavori di fine ‘800 sulla divisione del lavoro sociale e soprattutto nel saggio Il Suicidio, la qualifica come la dissonanza profonda – più esistenziale che cognitiva in senso stretto – fra la descrizione condivisa della realtà e la sua percezione individuale e soggettiva.

I più psicologici fra i miei lettori non avranno difficoltà ad individuare come questa situazione pregiudichi gravemente il senso di identità e come si tratti di un meccanismo che ha gli stessi tratti esistenziali di gran parte delle psicosi, dove lo scarto fra identità e realtà diventa un baratro incolmabile.

Secondo Durkheim l’anomia si presenta come accesso acuto a fronte di un evento che mette in crisi l’ordine della realtà e dei suoi valori – ingiustizia divina di un lutto o quella sociale della perdita del posto di lavoro. Ben più profondo è il caso in cui, a seguito di continui cambiamenti sociali che non hanno trovato il tempo e le condizioni per venire assimilati in un quadro di valori condiviso, essa si trasforma in una condizione cronica di una società che ha perso il legame semantico, ovvero il significato comune delle cose e dei valori. In uno tale scenario Merton coglie “uno scompenso tra scopi esistenziali messi a disposizione dalla cultura sociale e mezzi legittimi per raggiungerli*“.

Il neologismo della solitudine

Hikikomori
Scenario tipico della solitudine giovanile – Hikikomori

Veniamo dunque alla seconda parola: Hikikomori. Il termine è giapponese, si scrive (????? o ???? Hikikomori, e significa letteralmente “stare in disparte, isolarsi”.

Sicuramente più di una persona avrà sentito citare questo lemma soprattutto per essere fra i neologismi inclusi nel nuovo Zingarelli. Descrive una situazione consolidata in Giappone, ma estremamente diffusa seppure in varie forme nei paesi occidentali, che vede la gioventù barricata nelle proprie stanze a lasciarsi andare, passando da un videogioco, ai fumetti, allo streaming su Internet. Una sorta di “barbonaggio” domestico, di pauperismo familiare o di “homeless in casa”, in cui a dominare è tuttavia meno il rifiuto che l’abbandono, l’atarassia: una mancanza di desiderio e un lasciarsi andare alla deriva quasi autistico.

 

Bisogna ricordare almeno due aspetti della cultura sociale del Giappone.

Intanto il fatto che questo paese ha una tradizione di coesione sociale e di condivisione di norme dei valori superiori per molti versi anche a quelle dei paesi più integralisti, fatto che ha consentito ad un tutto sommato piccolo arcipelago di sviluppare una potenza tale da mettere alla prova, non solo grandi nazioni come la Cina, ma anche coalizioni internazionali come durante la seconda guerra mondiale; al termine del conflitto l’occidentalizzazione del paese ha condotto intellettuali e figure significative del paese a domandarsi se continuasse ad essere quello il paese in cui erano nati e con cui identificavano la propria identità sociale. Il caso più clamoroso fu forse il seppuku del premio nobel Yukio Mishima.

In secondo luogo, forse proprio in conseguenza di questa perdita di coesione, questo paese è diventato la patria del gioco d’azzardo con macchine elettroniche e oggi videogiochi con i quali intere popolazioni all’uscita dai luoghi di lavoro, in mancanza di luoghi di ritrovo rituale (un bel dipinto di questo scarto lo si trova nel bellissimo – per molti troppo profondo – film Departures Pt.1 e Pt.2) si stordiscono diventando loro, le persone, le palline di questo gigantesco flipper, sbattute di qua e di là da una congestione di automatismi. A questo punto possiamo concepire lo Hikikomori come un rifiuto di questa connivenza fra passività ed uso del denaro. Non c’è bisogno di spendere per lasciarsi andare ad un videogioco taroccato e non c’è bisogno di credere nella fortuna come hanno fatto i genitori o in un’affermazione sociale inattendibile: basta lasciarsi andare senza combattere, né credere, né desiderare. La realizzazione dell’antico progetto di Schopenhauer di negazione della volontà.

Con troppa facilità psichiatri e psicoterapeuti si sono buttati a capofitto nella nuova mucca da mungere delle cosiddette “Internet Addiction” e ora che certi dubbi di una quindicina d’anni fa, anche se non del tutto scomparsi, sono molto più soddisfatti si aggiunge confusione alla confusione facendo di tutta l’erba un fascio, considerando essere “tre milioni gli italiani colpiti da un disturbo psicologico che li costringe a isolarsi dal mondo nello stile degli Hikikomori giapponesi. L’incidenza del disturbo colpirebbe dal 3 all’11% della popolazione, con una prevalenza per i maschi dai 15 ai 40 anni, resi dipendenti dalla frequentazione compulsiva dei casinò online e i siti pornografici” (46° Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria cit. da G. Nicoletti).

Qui centra così poco la pornografia e il gioco d’azzardo! La situazione potrebbe essere la stessa anche senza Internet – ma difficilmente senza elettronica. La cultura elettronica parte da molto prima dell’elettricità, dalla semplice trasmissione delle comunicazioni (e quindi delle informazioni, della conoscenza e dell’apprendimento) in condizioni di assenza di contatto, come nel caso più ovvio del libro e del giornale. La differenza da 30-40 anni fa è che allora il giornale lo leggevi il più delle volte per discuterne nei luoghi di socializzazione, primo fra tutti l’ambiente di lavoro. Oggi che “la divisione del lavoro sociale” si è definitivamente frammentata e si è perso il valore primario di condivisione e di scambio su cui s’imperniava il tempo del lavoro, la comunicazione delle conoscenze e delle informazioni è ricorsiva: finalizzata a generare altro prodotto residuale della stessa materia.

Stabulari
Stabulari Animali

Il principio normalizzante dell’attività di polizia sanitaria (Foucault) dello psichiatra difende con le unghie e con i denti la natura soggettiva della patologia assunta come tale degli Hikikomori per non svelare il fatto che gli spazi di socialità sono consentiti oggi solo a due categorie di persone: gli esclusi dal sistema consumistico e i debordanti parassiti capitalisti che si guardano bene dallo sporcarsi le mani con la tecnologia.

I ragazzi dell’Hikikomori sono figli della classe media, doppiamente schiava, da un lato del dovere di mantenere efficiente il sistema dei consumi che dà loro da vivere, dall’altro di soggiacere al ciclo continuo dell’automazione fisica e intellettuale. Non basta, deve farsi convinto che siano questi i valori importanti della vita etichettati sotto la grande truffa del “progresso” e deve far in modo di trasmettere questi convincimenti ai figli. Proprio in Giappone dove la ribellione ai genitori è quanto mai inibita, l’unica risposta possibile delle nuove generazioni è una sorta di “seppuku esistenziale e intellettuale”. In altri termini, ad essere malati non sono i giovani e neppure le tecnologie, ma la circonvenzione passiva dei primi e la circolarità automatizzata delle seconde (dove con il termine intendo la generazione di output senza apertura in direzione delle esistenze, ma sotto forma di rifornimento di input del sistema automatico che comprende le persone nel suo stesso automatismo: uno stabulario tecnologico).

Conclusioni?

Fuga da Hikikomori
Fuga da Hikikomori

Fare due più due non è difficile, a questo punto e ritengo pleonastico indulgere sulle affinità fra le situazioni descritte dalle nostre parole: Anomia e Hikikomori.

Più utile sarebbe piuttosto trovare una via per questa fuga da Alcatraz dei nostri giovani, prigionieri di un triste destino della società dei consumisti e degli intellettualismi, schiavi di un serbatoio della inattività e della de-socializzazione chiamato scolarizzazione della società (Illich).

A questo punto subentra il deviato psicoterapeuta che è in me e non posso non farmi carico della sofferenza di giovani e famiglie. Quindi devo dire che una soluzione c’è e sicuramente più di una, ma chi dobbiamo considerare da curare, stante che i sistemi sociali non si possono curare, essendo delle derivate statistiche di soggettività e gruppi, quelli sono i genitori.

Il primo passaggio, come sempre, è l’ammissione della condizione patologica e patogena – conviene ripeterlo, prima che ad ammettere sia il figlio, devono ammettere di essere “ammalati” i genitori: che il modello di vita a cui stanno aderendo non è l’unico possibile e di certo non il migliore possibile. La domanda che uno psicoterapeuta dovrebbe fare è: fino a che punto potreste spingervi per rifiutare il ricorso all’energia elettrica? Portare il frigorifero e gli oggetti indispensabili in garage o in cantina e trasferire in casa solo l’indispensabile? Stare così per un periodo di almeno un mese, mangiando a lume di candela? Di certo dopo qualche giorno diventerà impellente il desiderio di uscire, anche solo per cenare fuori o andare al cinema: e questo sarà già qualcosa. Ma non potrà trascorrere un mese senza che delle cose cambino; senza che la fede nel sistema del condizionamento forzato ai media e alle routine dell’allevamento automatizzato dei polli umani prenda a vacillare.

Il problema, credetemi, non è la mancanza di cura dei figli o delle famiglie: il vero problema è che nessuno dei nuclei familiari così ipocritamente attaccati alla salute dei figli arriverà mai a mettere operativamente in discussione i valori e i modelli del sistema in cui si vive. Che non ci importi nulla di credere a Berlusconi, a Bersani, alla Repubblica o al Giornale, che si possa stare senza cellulare, che il valore importante non sia l’automobile, ma riprendere a coltivare la terra, che sia meglio ritornare ai filò dei nostri bisnonni piuttosto che alle soirée operistiche o teatrali o nei locali cool della movida!

Come vedete i valori su cui si basa il nostro modello di vita sono più marci e puzzolenti delle lenzuola di un giovane succube dell’Hikikomori. I malati siamo noi!

Infarti: quando superare la depressione è un salva-vita

Una recente ricerca mostra quanto la depressione possa influire nelle malattie cardiocircolatorie. In particolare nel caso di chi è colpito da infarto o ictus triplica o quadruplica le aspettative di morte precoce. Un rischio che oggi potrebbe essere facilmente ridotto se non escluso, solo a volerlo includere nei protocolli di trattamento

Uno studio recente realizzato dal reparto di Amytis Towfighi, MD con la Keck School of Medicine dell'University of Southern California e il Rancho Los Amigos National Rehabilitation Center di Los Angeles e l'American Academy of Neurology ha stabilito che le persone colpite da infarto che manifestino una concomitante storia di depressione hanno tre volte più possibilità di incorrere in una morte precoce e quattro volte quella di morire d'infarto rispetto a quanti non manifestano questo quadro clinico.

Non si tratta comunque di una iattura, ma piuttosto della segnalazione che nella profilassi delle malattie cardiache gioca un ruolo fondamentale il trattamento dei comportamenti e più in generale dello stato emozionale.

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Rivolgersi ad un non-terapeuta?

Una legge recente fa posto, fra l’altro, a nuove forme di professionisti dell’aiuto. A patto che non si occupino di terapia!

Esiste un vero e proprio universo parallelo costituito dai trattamenti cosiddetti “alternativi” alle cure tradizionali note con l'etichetta di “terapeutiche”: si va dai comuni consigli dell'erborista, ai massaggiatori vari, ai counselor, per non parlare di carismatici, paragnosti, cartomanti che esercitano di fatto attività simili. Una legge dello scorso dicembre di cui riferiamo dopo l'interruzione, nel disciplinarle di fatto le legittima e le istituisce, rispondendo a dei requisiti europei, ma anche scontentando tanti e facendo felici pochi: non solo gli stessi professionisti che fino a ieri potevano vivere felicemente nel sottobosco dell'ambiguità e che oggi devono mettersi in regola formalmente e fiscalmente, ma anche il fin troppo ampio panorama di disoccupati intellettuali che hanno dovuto studiare, spendere e faticare non poco per conquistare il diritto ad esercitare una professione rispettabile.

Appartengo a coloro che per mantenersi rendendosi utili al prossimo hanno dovuto laurearsi, seguire numerosi costosi percorsi formativi e sostenere diversi esami e concorsi. Se fosse esistita questa legge già allora forse non l'avrei fatto; o forse sì. Ma oggi che in teoria sarei fra i privilegiati, non mi sento per questo defraudato di alcunché. Ora vorrei occuparmi esclusivamente della parte legata alla salute e alla cura di questi vecchi “nuovi” professionisti, dichiarandomi fin da subito fra coloro che difendono il proprio diritto di credere alle fiabe o alla comunità scientifica in tutta libertà, avendo nella mia non breve vita visto di tutto, ivi compreso le peggio nequizie da parte di fin troppo rispettabili consessi accademici o sanitari. Poi si viene ai clienti, e qui nascono due indirizzi di pensiero: vi sono quelli che temono la diffusione di pratiche selvagge e dannose e quelli che invece vedono riconosciuto il loro sacrosanto diritto a rivolgersi ai fornitori di servizi che più aggradano senza che un qualche organo di polizia decida quello che possono o meno fare e se siano più o meno sani di mente nel farlo.

Il fatto è che, come ben descritto da studi come “La nascita della clinica” di Michel Foucault, o “Nemesi Medica” di Ivan Illich, la medicalizzazione della società ha espropriato le persone occidentali della legittimità di esprimersi ad un'infinità di saperi, espropriando la materia di cui si occupavano per ascriverla al contesto terapeutico, ovvero imputando l’avvenuto a cause patologiche, in poche parole “malattie”. Questo senza che nessuno dei più attuali sistemi di legittimazione scientifico-epistemologica (da Popper in avanti) possa sentirsi riconosciuto.

Tuttavia, se vogliamo che siano rispettati i criteri degli “alternativi” bisogna fare altrettanto con quanti pensano che la malattia o il peccato siano all'origine della natura animale e quindi umana.

Chi non rispetto sono coloro che sfruttano l'affermazione, per quanto discutibile, del principio della patologia per esercitare la propria professione in veste medica o psicologica (che pure dovrebbero essere mondi molto diversi al di là di alcune sovrapposizioni), così come coloro che, per aiutare il prossimo che esprime un bisogno non riconosciuto come “malattia”, lo “convertono” ad una spiegazione di tipo terapeutico.

Sarebbe ora che, a partire proprio da queste professioni, si passasse a de-patologizzare tutte le domande che non abbiano un chiaro, ripetibile, sensorialmente e fisicamente basato (Galilei), oltre che falsificabile (Popper) agente patogeno. Perché solo in questo caso si può parlare di patologie e di conseguenza di terapia.

Se invece ci muoviamo nel dominio anche solo della sofferenza sia chiaro che ci troviamo nella normalità della condizione umana, per la quale la felicità o anche solo la tranquillità è una conquista e non lo standard. A questa sofferenza possono essere date risposte le più svariate, compreso quelle farmacologiche o chirurgiche anche se queste uktime devono essere somministrate solo da professionisti riconosciuti, così come le psicoterapie che si qualificano in quanto tali. Ma il dominio della sofferenza, in quanto espressione del vissuto e non dell'aggressione patogena, ha la sua naturale risposta nell’apparato della “cura”. Un concetto espresso alla perfezione dalla canzone di Battiato.

“Io avrò cura di te” è una frase che sta bene in bocca a chi ama, ai familiari, agli amici; fra i professionisti si addice più al badante o all'infermiere, all'educatore o all'insegnante che non al terapeuta. Forse al medico condotto di una volta, ma non certo all'ingranaggio del sistema sanitario di oggi. Nei fatti, fortunatamente, sono ancora molti i terapeuti che si “prendono cura” dei loro pazienti, ma questa è un'altra cosa.

Andiamo verso un mondo teso alla libertà e alla compassione e un domani comprenderemo che questi sono diritti di tutti e non di chi possiede un patentino, anche se ora è ancora troppo presto per promuoverli.

Per ora riflettiamo su un semplice fatto: la scienza e le pratiche (tecniche) sono domini complementari, ma nessuno dei due deriva direttamente dall'altro.

Solo nel mago o nel sapiente questi convivono senza richiedere legittimazioni. Tuttavia, ogni mago è depositario di una propria magia e le magie sono molte, compreso la medicina, che oggi si frammenta in centinaia di sotto-magie che, non solo non si conoscono fra loro, ma addirittura possono conoscere solo il minimo indispensabile della magia generale (che si insegna sempre meno nelle università assieme alla semeiotica medica, quella sensoriale, e alla storia della medicina).

Che male ci sarebbe a vivere in una civiltà dove per trovare degli sciamani, delle “persone di sapere”, non si debba necessariamente soltanto porsi obiettivi esotici o riconoscersi ammalati e dove anche il professionista riconosciuto possa sentirsi più libero di vivere il proprio peculiare sapere nell'estrema umiltà di una fede umana? In fondo il terapeuta è uno dei sapienti a cui, avendo per le mani la vita delle persone, viene richiesto di “sapere” più di tanti altri.

Non di meno negli altri angoli del mondo il sapiente, l'uomo di sapere, si chiama sciamano (etimologicamente isomorfo). Il “sapere” degli uomini di sapere di tutto il mondo è simile e al contempo diverso, ma altrettanto profondo, impegnativo e degno di rispetto al punto che chi ci vi avvicina scopre quanto la nostra scienza ci abbia impoveriti e di quanto difficile sia quello che trova in altri mondi di sapere.


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