Spostare i limiti: 17 artiste alla Fondazione Merz

Un cubo sembra fluttuare leggero nello spazio ma avvicinandosi si scopre che è fatto con fini tubi di acciaio, simili a filo spinato, che lo rendono respingente, anzi “Impenetrable”, come recita il titolo dell’installazione della libanese Mona Hatoun (1952), una delle 17 artiste protagoniste di «PUSH THE LIMITS», progetto espositivo corale tutto al femminile che la Fondazione Merz ospita fino al 31 gennaio.

Curata da Claudia Gioia e Beatrice Merz, la mostra vuole indagare la capacità dell’arte di andare oltre i limiti, le convinzioni e i confini, siano essi culturali, geografici, identitari, sessuali, sociali o di visione, spostando l’asse del pensiero, della percezione e del discorso e immettendo nuovi elementi nel sistema. Essendo costitutivo dell’arte operare lo sconfinamento tra i linguaggi, le immagini, i saperi e oltrepassare ora strabicamente, ora frontalmente, il proprio tempo e la storia, ecco quindi alcune tra le voci femminili più rappresentative della ricerca artistica internazionale cogliere l’occasione per riaffermare l’urgenza di liberare l’infinità dei possibili.

Courtesy the artist
Photo Renato Ghiazza

«Ogni opera in mostra è una spinta in avanti in uno spazio in cui i codici correnti di comportamento sono sospesi e la trasformazione diviene possibile; dove il come se e la quasi realtà consentono un flusso di più visioni e vocabolari rapportandoli a modi differenti di vivere, sperimentandoli e trovando nuovo senso».

Photo Renato Ghiazza

La tedesca Katharina Grosse (1961) ci invita ad attraversare fisicamente pesanti tendaggi macchiati di vernice (Il cavallo trotterellò un po’ più in là), la grande barca della giapponese Chiharu Shiota (1972) fluttua intrappolata in un oceano di ragnatele (Where are we going? ), la francese Sophie Calle (1953) ci sfida con giochi di parole ad alzare le stoffe che celano fotografie (Parce que), mentre la brasiliana Cinthia Marcelle (1974) con The family in disorder, crea due ambienti, uno perfettamente ordinato l’altro del tutto disordinato, ognuno realizzato usando pari quantità di materiali naturali e industriali tra cui mattoni, gessi, teli di cotone, terra.

Una mostra immersiva che tra atmosfere, suoni, parole, tessiture materiche e cromatiche differenti, coglie l’urgenza espressiva del nostro tempo. Un incalzare di strappi, sovrapposizioni e interrogativi, attraverso cui le artiste declinano l’idea di limite e il concetto stesso di superamento, passando dalla dimensione politica a quella simbolica, dall’ispirazione filosofica a quella poetica.

Photo Renato Ghiazza

In mostra troviamo anche opere dell’italiana Rosa Barba (1972), Shilpa Gupta (1976, India), Jenny Holzer (1950, USA) Emily Jacir (1972, Palestina), Bouchra Khalili (1975, Marocco), Barbara Kruger (1945, USA), Shirin Neshat (1957, Iran), Maria Papadimitriou (1957, Grecia), Pamela Rosenkranz (1979, Svizzera), Fiona Tan (1966,  Indonesia), Carrie Mae Weems (1953, USA) e Sue Williamson (1941, Regno Unito).

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Emanuele Rebuffini