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IL SERVIZIO RESPONSABILE. L’ESITO NECESSARIO DELLA NOSTRA SPIRITUALITÀ APOSTOLICA
di Rossano Sala
(Note di Pastorale Giovanile 2018-05-4)
Nel quadro della spiritualità giovanile salesiana
La proposta pastorale per il prossimo anno educativo-pastorale ha come tema di fondo il “servizio responsabile”. È l’ultimo dei cinque grandi pilastri della nostra Spiritualità Giovanile Salesiana, che fa da riferimento ineludibile al nostro modo di essere Chiesa e di essere nella Chiesa:
1. La vita quotidiana come luogo dell’incontro con Dio. Il quotidiano ispirato a Gesù di Nazareth è il luogo in cui il giovane riconosce la presenza operosa di Dio e vive la sua realizzazione personale.
2. Una spiritualità pasquale della gioia e dell’ottimismo. Il quotidiano va vissuto nella gioia e nell’ottimismo, senza rinunciare per questo all’impegno e alla responsabilità.
3. Una spiritualità dell’amicizia e della relazione personale con il Signore Gesù. Il quotidiano è ricreato dal Cristo della Pasqua che dà le ragioni della speranza e introduce in una vita che trova in Lui la pienezza di senso.
4. Una spiritualità ecclesiale e mariana. Il quotidiano si sperimenta nella Chiesa, ambiente naturale per la crescita nella fede attraverso i sacramenti. Nella Chiesa troviamo Maria, prima credente, che precede, accompagna e ispira.
5. Una spiritualità del servizio responsabile. Il quotidiano viene consegnato ai giovani in un servizio generoso, ordinario e straordinario.
L’anno 2018-19 porta a compimento un triennio organizzato intorno a tre di questi nuclei, che hanno una distensione ben precisa e fortemente unitaria:
– 2016-2017: L’incontro con il Signore
– 2017-2018: L’appartenenza gioiosa alla Chiesa
– 2018-2019: Il servizio responsabile nella vita quotidiana.
Possiamo pensare ad una dinamica generativa che parte dall’incontro con Gesù e che ci orienta in due direzioni: quella dell’accoglienza della grazia che salva, ben chiarita dal tema dell’appartenenza e della comunione ecclesiale, che ci fa discepoli del Signore; e quella della testimonianza in uscita, rappresentata dalla necessità di diventare sempre di più missionari del Vangelo nel mondo e nella società in cui viviamo.
Nel tempo del Sinodo sui giovani
L’anno pastorale che stiamo per cominciare segna la presenza del Sinodo dal tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, che si svolgerà dal 3 al 28 ottobre 2018.
Il Sinodo non ha l’intenzione di parlare genericamente dei giovani, ma di farlo a partire da un’ottica specifica, che è quella della “fede” e soprattutto del “discernimento vocazionale”. Puntando sull’idea di “pastorale giovanile vocazionale” il Sinodo desidera qualificare la pastorale giovanile in ottica vocazionale e far diventare patrimonio di tutti i giovani il discernimento a proposito della propria missione nel mondo e nella Chiesa.
A partire dall’ottica del “discernimento”, frutto della laboriosità della fede, prende corpo l’idea e la specificazione di che cosa significa il “discernimento vocazionale”, tipico dell’età giovanile. Esso non avviene rinchiudendosi nella propria interiorità per cercare la propria identità in forma intimistica e autoreferenziale, ma esattamente aprendosi al senso e all’orientamento della propria esistenza in forma “estatica” ed “eccentrica”:
«Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Ma tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”. Come la Madonna, che è stata capace di domandarsi: “Per chi, per quale persona sono io, in questo momento? Per la mia cugina”, ed è andata. Per chi sono io, non chi sono io: questo viene dopo, sì, è una domanda che si deve fare, ma prima di tutto perché fare un lavoro, un lavoro di tutta una vita, un lavoro che ti faccia pensare, che ti faccia sentire, che ti faccia operare. I tre linguaggi: il linguaggio della mente, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. E andare sempre avanti» (Veglia in preparazione alla XXXII Giornata Mondiale della Gioventù, 8 aprile 2017).
Già in Evangelii gaudium vi era un passaggio di grande lucidità sull’argomento quando, parlando dell’identità del cristiano, si dice che «io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo» (n. 273). Un’affermazione molto forte e precisa: la missione non è un “fare”, ma un “essere”, cioè mi offre consistenza personale nella forma della generosità sistemica verso il prossimo.
Il passaggio dal “chi sono io?” al “per chi sono io?” è decisivo e segna un cambio di prospettiva radicale e imprescindibile. Questa mossa sinodale è kairologica, perché propone esattamente l’antidoto alla malattia tipica e specifica del tempo in cui siamo chiamati a vivere e operare dal punto di vista educativo e pastorale: il narcisismo sistemico, autistico e autoreferenziale.
Decisivo è aiutare ogni giovane, ma in verità ogni battezzato e in fondo anche ogni uomo di buona volontà a porsi la domanda giusta circa la destinazione della propria libertà, perché la questione della realizzazione della propria esistenza e della ricerca di una vita felice passa sempre attraverso la mediazione dell’altro: la domanda giusta da fare ai giovani non è “cosa devo fare per essere felice?”, ma “chi devo rendere felice perché io possa davvero trovare la felicità?”.
Qui si vede bene che ogni vocazione personale è una missione verso terzi e mai si riduce ad un monologo mortifero con se stessi. E mai e poi mai diviene una relazione a due con Dio. Anzi, è proprio il dialogo vocazionale con il Dio dell’alleanza e della misericordia che chiama per inviare e mai per restare.
La corresponsabilità apostolica con i giovani
Eccoci così giunti al cuore della proposta pastorale, che consiste sostanzialmente nel pensare ai giovani come ai protagonisti della missione della Chiesa. Effettivamente il soggetto dell’evangelizzazione, come ben ci ricorda Evangelii gaudium al n. 120, è la Chiesa nel suo insieme, perché
«in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni»
E i giovani, in quanto battezzati, sono soggetti attivi della missione della Chiesa. Essi possono prendere consapevolezza della propria vocazione nella Chiesa solo nella forma della condivisione evangelica di vita e della corresponsabilità apostolica. Non è possibile entrare nel ritmo della fede al di fuori di un’esperienza ecclesiale coinvolgente che abbia la forma di un evento sempre inedito capace di generare simpatia, accoglienza e imitazione da parte dei giovani.
Questo è il punto qualificante della pastorale giovanile, perché il cristianesimo è nella sua essenza un evento di donazione e quindi esso “si impara” solo attraverso il contatto con una testimonianza capace di generare sequela e imitazione: non nel sapere teorico, né nel ripetere scolastico, né nel contemplare spirituale, ma nel servizio concreto, nell’esperienza della dedizione reale si fa esperienza di Dio, della sua Chiesa e del suo Regno che viene.
Si diventa discepoli del Signore nell’effettività della vita, attraverso la chiamata e l’esercizio concreto dell’apostolato, attraverso l’accoglienza di un invito percepito come parola non di uomini, ma che rimanda realmente a Dio. E questo impegno, che permette ai giovani di essere protagonisti, apre il campo a tutte le altre istanze della vita cristiana: da qui infatti sorge l’esigenza di una vita che sia moralmente all’altezza della missione, di una vita di fede capace di attingere all’essenziale, di una spiritualità apostolica, di una conoscenza dei contenuti della fede stessa.
La pastorale giovanile desidera fare dei giovani a cui è mandata dei soggetti impegnati in presa diretta nell’esercizio della vita cristiana, e non degli inoperosi, disinteressati e indifferenti destinatari: l’idea che i giovani siano soggetti passivi della pastorale giovanile è assolutamente da respingere, perché – in primo luogo – tradisce il cuore della proposta cristiana, che è certamente ricezione dell’iniziativa di Dio a favore nostro, ma, nella sua piena maturità, è altrettanto un impegno esplicito di attestazione esistenziale di un modo di vivere che si pone al servizio degli altri. In secondo luogo tale prassi non è per nulla rispettosa dell’età della vita del giovane stesso: un’età che richiede l’energica presa in carico della propria vita, caratterizzata dall’esercizio in prima persona della libertà e della responsabilità, dalla capacità di iniziativa personale in molti modi.
La necessaria fiducia e il grande guadagno
Questa strategia pastorale richiede un atteggiamento fondamentale nei confronti dei giovani: la fiducia e la speranza nei giovani stessi. Se questo atteggiamento manca nei responsabili della pastorale giovanile – e in generale nell’istituzione ecclesiale – non vi è possibilità di fare dei giovani dei soggetti della pastorale giovanile, e in fondo diventa quasi impossibile fare di loro dei discepoli del Signore.
L’accompagnamento necessario, il sostegno e la verifica – di fronte anche ai fallimenti a cui si può andare incontro – non possono far perdere la speranza sulle capacità e le possibilità dei giovani di essere protagonisti, di essere dei “giovani discepoli missionari”. Purtroppo il compito educativo e pastorale è colpito a morte quando siamo in presenza dalla perdita generale della fiducia e soprattutto della speranza, che, nel momento in cui aggredisce la fede e la carità, le svuota come da dentro della sua forza motrice.
Il peggior atteggiamento in assoluto per un operatore di pastorale giovanile è quello di non avere speranza nei giovani a cui è mandato.
Infine, il coinvolgimento corresponsabile dei giovani in ordine alla missione della Chiesa – nel momento in cui è adeguatamente accompagnato ed è interpretato con intelligenza – porta con sé un vantaggio di grande attualità proprio nel tempo in cui viviamo: il servizio generoso verso gli altri creano un naturale superamento dell’autoreferenzialità a cui è soggetto il nostro tempo, perché allontanano radicalmente il giovane da un’attenzione e da una concentrazione potenzialmente patologica verso la propria persona e lo costringono a confrontarsi e a misurarsi con l’altro da sé e a partire dall’altro da sé. Occuparsi degli altri, insomma, significa per lo meno distogliersi dalle proprie esigenze.
D’altra parte è decisivo affermare che la contestazione del principio narcisistico nella pastorale giovanile non può essere lasciato ad una enunciazione teorica, ma deve giungere a proporre ai giovani esperienze educative e pastorali di dedizione e di donazione – anche forti e discriminanti, se è il caso – in cui si sentono protagonisti e attori di una forma di servizio praticabile e a loro misura, su cui far crescere la loro responsabilità personale.