Tullio Regge o dell’infinito cercare. Parte seconda

«Mio padre mi annunciò che l’indomani mi sarei dovuto trasferire dai nonni materni […], dove mia nonna Rosmina era anche la portinaia dello stabile. Mi dette qualche soldo e mi fece partire in fretta, in treno. Il giorno dopo mia mamma partì per Borgo d’Ale, e la settimana seguente si nascose anche lui […]. Non metteva mai fuori il naso, perché era un notorio fascistone, e a quei tempi si ammazzava per niente» (p. 14). Pagine dense di commozione rievocano la scia di morti, la paura e l’orrore che contraddistinsero l’epoca della fine della guerra e delle rappresaglie, anche nella piccola Borgo d’Ale.

Mentre l’Italia riprende a vivere ha inizio per Regge la stagione degli studi universitari, il biennio al Politecnico di Torino e poi la Facoltà di Fisica. Qui si apre un mondo di incontri, scoperte, viaggi che lo porterà negli Stati Uniti, a Rochester e poi a Princeton, e di nuovo in Italia, come ricercatore e come docente.

L’attività scientifica si intreccia con la vita famigliare, il matrimonio con la fisica Rosanna Cester, da cui nascono Daniele, Marta e Anna, la conoscenza o la collaborazione con scienziati di livello mondiale, tra cui vari premi Nobel, nel ricordo dei quali hanno grande rilievo le peculiarità caratteriali di ognuno.

Nel descrivere l’approccio con le appassionanti ricerche condotte, lo scienziato usa a più riprese una parola chiave, “divertimento”, che si rivela una costante nel modo di affrontare questo aspetto così vitale della sua esistenza, ma mai dominante rispetto alle relazioni umane.

Dopo la feconda esperienza americana Tullio Regge torna con la famiglia a Torino. È il 1978-79. Nel prendere la decisione «a parte le motivazioni professionali, un peso determinante lo ebbe Torino, che per me ha un significato profondo. Sono molto legato a questa città, alla stessa cultura che esprime. Né dimentico che Torino ha una lunghissima tradizione scientifica, fin dai tempi dell’Illuminismo e di Lagrange – scienziato all’altezza di Galileo, Newton, Einstein – che però molti conoscono solo perché dà il nome ad una nota strada» (p. 115).

Verranno anni di insegnamento, divulgazione della scienza ad un pubblico il più possibile ampio attraverso conferenze, libri e strumenti informatici, realizzazioni che coniugano arte e modelli matematici, l’esperienza al Parlamento Europeo e ancora incontri.

Emblematico, per quanto permette di leggere di entrambi gli interlocutori, quello con Primo Levi: «A metà cena fece una pausa improvvisa e, quasi casualmente, disse: «Tra parentesi, durante la guerra sono stato in campo di concentramento». Un’espressione di una sobrietà monumentale. Non seppi cosa rispondere e temo di aver blaterato qualche nonsenso. Molti anni dopo fui invitato a visitare la Polonia. Finii a Cracovia e quindi ad Auschwitz. Passai sotto il cancello con l’infame scritta: «Arbeit macht frei» («Il lavoro rende liberi»). Vidi il film girato dall’Armata rossa. Ascoltai la Marcia funebre di Beethoven. Vidi fotografie spaventose, terribili. Lessi statistiche terrificanti. Pensai a Primo. Con tutto ciò, ancora oggi continuo a non sapere cosa avrei potuto dire per sostenere con lui una conversazione sull’Olocausto» (p. 135).

Tullio Regge o dell’infinito cercare. Parte prima

Tullio Regge con Stefano Sandrelli, L’infinito cercare

Un intreccio indissolubile di scienza e vita, scoperte e affetti è l’“autobiografia di un curioso” L’infinito cercare. A dipanarlo, con la piacevolezza di una chiacchierata, è Tullio Regge, accompagnato dal giornalista scientifico Stefano Sandrelli.

Lo scienziato, nato a Torino nel 1931, è considerato uno dei maggiori fisici teorici viventi. Insignito di riconoscimenti quali l’Albert Einstein Award e la medaglia Dirac, si devono alla sua ricerca, tra le altre scoperte, i “poli” e il “calcolo” che ne portano il nome.

Attualmente professore emerito del Politecnico di Torino, è anche un divulgatore: ne sono esempi il Dialogo scritto con Primo Levi (1987), Infinito (1994), L’universo senza fine (1999) o la Lettera ai giovani sulla scienza (2004).

L’autobiografia prende le mosse dalla nascita, nella casa degli amatissimi nonni materni in corso Quintino Sella a Torino. L’infanzia trascorre «in corso Casale, nel quartiere della Madonna del Pilone, in un appartamento che sorgeva di fronte all’ultima dimora di Emilio Salgari, che rimase poi uno dei miei autori preferiti, con quei suoi personaggi «fedeli ad un cavalleresco ideale di lealtà e di coraggio», come recita la lapide apposta al muro della casa» (p. 3).

Fin dalle prime pagine viene messo in luce il rapporto con il padre, il cui carattere è tratteggiato a chiaroscuro, l’essere “comandino” (come l’avrebbe definito la nonna materna) e l’adesione al fascismo accanto all’inesausta sete di sapere: «Anche se intorno alla metà degli anni Trenta eravamo piuttosto squattrinati, mio papà mi incoraggiava ad avvicinarmi alla scienza comprando tantissimi libri usati al Balôn, il mercato delle pulci» (p. 5). «Da lui ho preso molto: di sicuro gli devo, oltre alla testardaggine, anche la curiosità e l’amore per la scienza» (p. 4).

Presto Torino si trova sotto i bombardamenti: «Ricorderò sempre la fiumana di gente in corso Tortona, in fuga verso l’autostrada, che in quel momento di emergenza era aperta anche alle bici. Ricorderò sempre la rimessa dei tram devastata, le case crollate, le distruzioni… Così tante che non si contavano. Ricorderò sempre le madri aggrappate ai figli, che piangevano di terrore» (p. 8).

La famiglia si mette in salvo, dopo una corsa di cinquanta chilometri in bicicletta, a Borgo d’Ale, paese natale del padre Michele, che porta il nome del patrono della località del vercellese. Qui i Regge sono accolti affettuosamente: «Fecero accomodare i miei genitori in una camera da letto, mentre per me e mio fratello prepararono due lettini nella stalla, con balle di paglia e qualche coperta. C’erano anche tre mucche. Ricordo perfettamente i loro continui e caldi «muuh, muuh» notturni!» (p. 8).

Un anno trascorre tra partite a bocce e l’iscrizione in terza media al Seminario arcivescovile di Moncrivello, presso il Santuario della Beata Vergine del Trompone. Michele Regge trova poi lavoro come geometra al Comune di Venaria Reale. Qui Tullio fa la conoscenza delle tre figliolette di un militare, che si rivelerà tempo dopo essere un comandante delle SS, e dei pregiudizi contro gli emigrati dal Sud Italia.

– Continua –

Una guardinga spensieratezza lungo la linea di minor resistenza

Carlo Fruttero, La linea di minor resistenza

Un grande respiro poetico si dipana nelle scarne eppur dense pagine che compongono La linea di minor resistenza.

Carlo Fruttero, scrittore e traduttore, nato a Torino nel 1926, è noto soprattutto per i bestseller scritti con l’amico Franco Lucentini, in un sodalizio nato all’Einaudi alla fine degli anni Cinquanta (due per tutti: La donna della domenica e A che punto è la notte). “La ditta” firmò insieme anche articoli, traduzioni, e curò per venticinque anni la collana di fantascienza “Urania” della Mondadori.

Dopo la traumatica fine di Franco Lucentini, Fruttero tornò alla pubblicazione di opere narrative con Donne informate sui fatti, a cui seguirono Ti trovo un po’ pallida, il racconto per ragazzi La Creazione, il libro in parte autobiografico Mutandine di chiffon e l’ultimo, La patria, bene o male, scritto con Massimo Gramellini.

La figlia Maria Carla è stata testimone della nascita di La linea di minor resistenza, scritto di getto, «senza pause, senza incertezze […] una ballata lunga una vita, la sua vita» e per volontà dell’autore pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio di quest’anno.

«L’avevo in testa da vent’anni, ma non ero mai riuscito a scriverlo. Forse perché non era ancora il momento». Il momento delle riflessioni ultime, che sfogliano i mille dettagli attraverso i quali seppe rendere vivida nelle sue pagine la borghesia torinese, con le sue peculiarità e gli aspetti universali, per arrivare alla radice del viaggio di ognuno noi.

La linea di minor resistenza è in natura la via seguita dalla materia per evolvere, ne è esempio l’acqua che tende ad andare verso il basso se non diversamente incanalata.

Anche Jack London ne La crociera dello Snark ne fa menzione: «Nessuna spiegazione riesce a convincerli che in realtà stiamo seguendo la linea di minor resistenza, ossia che metterci per mare con una barca è per noi molto più facile che rimanere sulla terraferma […]. Non riescono a uscire da loro stessi quel tanto che basti per capire che la loro linea di minore resistenza non è necessariamente quella degli altri».

Nell’opera di Fruttero la linea di minor resistenza assurge a protagonista e si materializza negli acquerelli di Guido Della Casa: ai piedi di una rocca assediata, mentre guida soldati sulle montagne che vanno incontro a bagliori di guerra o ne fuggono, strappando attimi di libellule tra scempi di corpi e fame.

Sono «in marcia da gran tempo, stanchi ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme» i protagonisti di questo “poemetto”. Procedono «a ginocchi piegati, schiena curva, in silenzio […], l’occhio attento, l’orecchio ben spalancato al fragore della battaglia laggiù».

«Nello smeraldo di un prato» si apre per loro uno squarcio di illusoria pace. «Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti non lo era. In mezzo a noi languidi – appena un fruscio, un taglio nel bisso – precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi, più di una volta combattere sopprimendo il tremito, richiamando l’impigrito furore a denti stretti, l’urlo pronto a scoppiare, il braccio mulinante a caso nella mischia». E conclude, con brevitas fulminante: «Belve, tutti».

In questa guerra di ogni tempo, che è realtà e metafora, e «polverosi e ossuti» si combatte armati di una «daga incrostata», di «frecce scarse nella faretra», la quotidianità del cibo da racimolare si affastella ai morti senza sepoltura e alle riflessioni dei superstiti, che «oltre quegli ultimi cardi» stanno per giungere al traguardo comune, «lo stagno immobile».

«Soltanto una fuga è stata tutta la nostra marcia per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma non è stato proprio così, sempre così. C’erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga spensieratezza, di euforico abbandono, l’ombra del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva di correre più in fretta del sole, della vita».

I bambini alla scoperta di… Torino e dell’arte con Willy Beck e Guido Quarzo

Willy Beck - Guido Quarzo, I bambini alla scoperta di... Torino

Un luogo, una città, una regione possono essere paesaggio e per certi versi personaggio di opere narrative, intrecciandosi con le vicende della storia che viene raccontata, ma possono anche essere guardati da un altro punto di vista: quello “frontale” che è proprio del genere della guida.

Un caso recente è quello delle pubblicazioni a misura dei più piccoli I bambini alla scoperta di… dell’editore romano Lapis: Roma antica e dal Medioevo all’età contemporanea, Villa Borghese, il Lazio, oltre a Bergamo, Bologna, Firenze, Mantova, Milano, Prato, San Marino, Venezia, Verona sono i titoli finora editi in questa collana.

Il volumetto dedicato a Torino, studiato per lettori dagli otto anni in su, è stato affidato allo storico dell’arte Willy Beck, allo scrittore per ragazzi Guido Quarzo e all’illustratore Lorenzo Terranera.

Edito nel 2001, è stato ripubblicato dieci anni dopo in edizione rinnovata e accresciuta.

Una luminosa quanto troppo breve parabola di critico e docente è stata quella di Willy Beck, stroncato da un infarto a soli 59 anni il 13 agosto scorso.

Nato a Torino nel 1952, si laureò in lettere nel 1985 con una tesi in Storia della critica d’arte su Carlo Ludovico Ragghianti, relatore Gianni Carlo Sciolla.

Dalla fine degli anni Ottanta cominciò a dedicarsi all’organizzazione di mostre di artisti contemporanei, alla stesura di cataloghi e all’attività di conferenziere, collaborando, tra le altre istituzioni, con il Centro “Pannunzio”, gli Amici del Museo di Antichità, il Museo Accorsi, Palazzo Bricherasio a Torino e Casa Zuccala di Marentino.

Insegnò storia dell’arte a Ivrea, Castellamonte e Torino.

Chi scrive fu sua allieva negli anni del liceo.

Devo a Willy Beck, al suo entusiasmo unito al rigore metodologico e alla capacità di suscitare la curiosità e di trasmettere la passione, la prima scintilla del mio amore per l’arte e del desiderio di approfondire queste tematiche attraverso gli studi universitari.

Guido Quarzo, classe 1948, torinese, è laureato in pedagogia, attore, mimo e autore di teatro in particolare per ragazzi. È stato per molti anni docente alle scuole elementari ed ha iniziato poi a scrivere testi di narrativa come L’ultimo lupo mannaro in città, Clara va al mare, editi da Salani e Cronache di Pontecambio (Einaudi).

Dopo aver allineato gli strumenti del “turista”, I bambini alla scoperta di… Torino partono per otto itinerari alla scoperta dell’antica città, fondata dai Romani come Iulia Augusta Taurinorum.

Percorsi di circa due ore propongono luoghi da visitare, personaggi storici, aneddoti, domande che aguzzano la curiosità dei piccoli e degli adulti che li accompagnano.

Da Piazza Carlo Felice al Museo Egizio, da Piazza Carignano al Teatro Regio, da Piazza Castello a Piazza Vittorio Veneto, e dalla Mole Antonelliana al Monte dei Cappuccini, per inoltrarsi poi tra i Giardini Reali e il Museo di Antichità, Via Garibaldi e Piazza Statuto, tra Porta Susa e il Teatro Gianduja, approdando al Parco del Valentino, fino ai musei fuori itinerario (la Galleria d’Arte Moderna, il Museo dell’automobile e il Lingotto), prima di scoprire i dintorni della città con le residenze sabaude di Venaria Reale, Stupinigi, Rivoli, senza dimenticare la Basilica di Superga.

Gli acquerelli del pittore e scenografo Lorenzo Terranera sono parte integrante della delicatezza e ironia del racconto, che presenta una città da guardare e osservare con gli occhi di un bambino.

«Quella che stai per cominciare è una visita semiseria al Museo del Risorgimento. Tu forse non ci crederai, ma siamo qui per cercare… un cane.

Proprio così, un cagnolino che stava con noi un momento fa e ora non sappiamo dove è andato a finire. Vuoi aiutarci a trovarlo? Sarà necessario visitare alcune sale con particolare attenzione.

Osserva nella sala 3 il grande quadro della battaglia di Torino del 1706 (@ itinerario 7).

Fu un avvenimento davvero importante per la città e ne sentirai parlare ancora in altre occasioni. L’esercito francese assedia Torino, forte di 45.000 uomini, 60 mortai e 110 cannoni.

Ma ecco che il dodici maggio, nelle prime ore del pomeriggio si verifica una eccezionale eclissi di sole.

Nell’oscurità, ben visibile, brilla la costellazione del toro. È un chiaro segno: le truppe del re Sole (così era chiamato il re di Francia, Luigi XIV) sono destinate alla sconfitta.

L’assedio durò comunque quasi quattro mesi, fino a quando cioè le truppe del Principe Eugenio, che vedi nel quadro, sbaragliarono gli assedianti: è il 7 settembre del 1706.

Il nostro cagnolino è per caso finito lì in mezzo?

Sembra proprio di no.

Cerchiamolo più avanti (pp. 29-30).

[…]

Hai cercato bene in tutte le sale? Se sei arrivato alla Sala 14 dovresti sentire un rumore di battaglia. Spari, cavalli al galoppo, grida di soldati…

È la battaglia di Pastrengo del 1848, al centro puoi vedere il re Carlo Alberto che sul suo cavallo bianco guida la carica dei Piemontesi contro le truppe austriache.

E che cosa vedi proprio lì in basso, vicino a quel cannone che sembra puntato proprio su di te? Ma certo, è lui, il nostro cagnolino!» (p. 31).

E ancora: il berretto frigio, San Pasquale Baylon e il sanbajun, Castore e Polluce a guardia del Palazzo Reale, gli gnocchi e le patate che i torinesi introdussero nella propria alimentazione solo all’inizio dell’Ottocento, il fantasma della Bela Caplera che aveva bottega in Piazza Carlina e lì fu ghigliottinata, i grissini e la loro lunghezza a regola d’arte, Cabiria e il grande cinema a Torino..

Willy Beck e Guido Quarzo visti da Lorenzo Terranera

Viaggi foravìa di Dario Voltolini. Parte seconda. Le colline e il quartiere

«In certi sabati sera dopo il lavoro [mio papà] trovava, non so dove, la forza per proporre di andare giù al mare [«il mare, come ben sai, era per tutti noi la Liguria» (p. 21)]. Non c’era nemmeno ancora tutta l’autostrada. Era assai foravìa». (p. 20).

Comincia con un piccolo foravìa – letteralmente un andare fuori dalla via consueta -, anche il viaggio che porterà il protagonista da Ivrea alla collina tra Chivasso, Gassino e Cinzano.

«Quel giorno però non presi l’autostrada, perché mi avevi detto che conveniva passare il Po a Chivasso e quell’autostrada non passa a Chivasso, ci passa quella per Milano» (p. 19).

«Andando al lavoro la mattina [da Torino ad Ivrea], dopo uno scollinamento dell’autostrada, mi si apriva davanti la vista della collina morenica simile a un orizzonte più alto e vicino. Era la Serra. Il suo profilo retto e leggermente obliquo è emozionante, emana una nota misteriosa» (p. 19).

Quel giorno invece «guidando vedevo in lontananza di fronte a me la collina torinese, così diversa da quella morenica» (p. 22), e appartenente al sistema degli Appennini e non a quello delle Alpi (p. 8).

Le forze della terra sono come un gigante dal sonno leggero sulla pelle del quale si muove tutta la storia.

«I paesi che stavo attraversando alla guida della mia Uno non hanno certo l’aspetto di quelle cosiddette città-dormitorio industriali. Graziosi, raccolti ai loro centri strutturalmente simili l’un l’altro, puliti, qualche condominio […] per il resto case molto decorose […] e nuclei storici gradevoli, commoventi nei loro mattoni, negli archi e negli acciottolati antistanti le chiese non arroganti, ma ben presenti» (pp. 22-23).

Nei pensieri del viaggiatore anche il lavoro degli abitanti, forse a Torino oppure in loco, in piccole aziende dell’indotto metalmeccanico (le boite).

«Cominciai a salire sulla collina, da Gassino verso Cinzano», sentendo uno spostamento del sistema percettivo (p. 27).

Cade la notte, in un luogo sconosciuto e sperduto. Qui la terra, con il fango e i latrati degli animali selvatici, imprigiona l’auto e il suo guidatore fino all’alba.

Dopo alcune peripezie «ritornai di nuovo sull’asfaltata e salii fino al paese. Le prime abitazioni erano ancora sulla morbida salita, ma il resto del minuscolo abitato stava in piano e aveva una piccola radura, non proprio una piazza, su cui davano facciate bianche come appena passate a calce, di dimensioni che mi apparivano minime, tanto da dare un tocco fiabesco al paese» (p. 37).

La parte finale del racconto è ambientata a Torino. Il percorso verso la Biblioteca Civica inanella un reticolo di punti di riferimento, evidenziando una socialità lontana dallo stereotipo della grande realtà urbana.

Si comincia con il caffè, dove ferve «un seminario permanente di riflessione politica sull’attualità, di comunicazione sulla vita del quartiere e soprattutto di elaborazione filosofica, e anche etica a più voci» (p. 47)

La memoria personale e della città passa attraverso attività commerciali tuttora presenti ed altre scomparse, come Fermento, che aveva in vetrina birre e whisky rarissimi, comparati a stampe pregiate del tipografo Tallone (p. 50).

«Oltrepassai il luogo in cui un tempo esisteva il cinema Statuto, triste capitolo di vita civica […]. Eravamo liceali, all’epoca, no?» (pp. 50-51).

La storia famigliare, da cui origina l’elaborazione del foravìa, riemerge camminando sotto i portici della stazione di Porta Susa. «Pensavo […] a mio padre, con cui poco distante guardavamo scomparire il vapore della locomotiva che si infilava sotto il sovrappasso per poi ricomparire dall’altra parte di questo con il treno che tornava a cielo aperto, come in un gioco di prestigio» (p. 51).

Viaggi foravìa di Dario Voltolini. Parte prima. L’Olivetti di Ivrea

Foravìa è un trittico di racconti di Dario Voltolini edito nel 2010 da Feltrinelli.

Lo scrittore torinese ha dato voce in molte sue opere alla “città”, fin dagli esordi con Una intuizione metropolitana (1990).

Foravìa, il racconto che apre e da il titolo alla raccolta, ha origine dall’esperienza vissuta dall’autore all’Olivetti di Ivrea, in particolare allo Speech & Language Lab., le cui sorti divengono lo specchio della crisi della storica azienda.

La realtà del quotidiano, descritta con precisione millimetrica, si apre e diviene lo spazio del foravìa (in dialetto, “inconsueto”), dello straniamento, che corre attraverso i diversi viaggi narrati: nella pancia della fabbrica, nello spazio geografico e geologico tra Ivrea e la collina torinese, nella notte in cui “il corpo della valle scatena i suoi anticorpi contro l’elemento virale” (p. 33), nel quartiere torinese intorno alla Biblioteca Civica, e nel tempo, che connette e separa i diversi piani della narrazione.

Foravia è un racconto in forma di lettera destinata a Luca Rastello, scritto nel 2008-9, al centro del quale sta un’avventura accaduta, misteriosamente, il 27 ottobre 1990. «Tu e io abbiamo appena finito uno scambio di mail che finirà su un prossimo numero della rivista “Il primo amore”. Adesso le interviste possiamo farle così. Allora non si poteva ancora. [Nessun cellulare, sito, account]. Ma tutto molto prossimo ad arrivare» (p. 12).

Nel 1990 l’io narrante lavora in un «ufficio per modo di dire. Ci avevano sistemati, noi reduci di un laboratorio smantellato, in un posto che si chiamava Ingresso Autorimessa, e questo era» (p. 7). Successivamente, già nell’era di Internet, «ormai ridotti a due superstiti ci avevano spostati ancora in un altro posto dentro gli enormi e sempre meno abitati edifici della fabbrica un tempo gloriosa» (p. 11).

Gli occhi del lettore seguono il protagonista nella sua esplorazione del corpo della fabbrica.
«Raggiungevo locali semidimenticati [risalenti all’]Età della Meccanica», dove macchinari mastodontici abbandonati, cavi, stampi «restavano in attesa di essere smaltiti, da chissà quanto tempo» (p. 13).

Dopo un passaggio in parti della fabbrica «oscure, fredde» egli giunge «in zone affollate, dove l’attività appariva talvolta frenetica», che rivelano, attraverso le parole carpite, «la tensione nervosa di chi si sente scivolare nell’impotenza, perché chi lavora in […] un’azienda di grandi dimensioni patisce in se stesso, a volte senza saperlo, l’andamento dell’intera azienda. E quell’azienda stava inoltrandosi nel nulla» (p. 14).

Una balconata interna «affacciava su un atrio molto ampio, su un lato del quale imperava la statua [dell’]industriale originario. Camillo[…]. Lì si tenevano le assemblee dove i sindacalisti lungamente producevano quel loro misterioso linguaggio lungo il quale a poco a poco la mente dell’ascoltatore si perde come in dormiveglia» (p. 15).

Ed ecco la fabbrica originaria: «Il mattone anziché il cemento, il legno anziché il profilato, i sussurri e non le invettive, persino certi vasi con piante accudite» (p. 16) tutto ciò conferiva «un’anima contemperata che addolciva tutta l’isteria maschile predominante» (p. 17).

Anche qui non manca l’attenzione per chi popola questi spazi. Contrastano con questo “hortus conclusus” «le nuove figure professionali esaltate da tanta retorica, come la direttrice del personale aggressiva, scosciata, scollata, liftata, dura, spietata, profumata o come la donna manager o la responsabile delle relazioni esterne, ircocervi del discorso, bufale» (p. 17).

Questo primo viaggio si conclude, dopo il girovagare e il consueto incontro con «l’uomo ventoso», all’ora di uscita (p. 18).
– Continua –

La giornata di uno scrutatore al Cottolengo

Il forno del pane del Cottolengo (Foto: Archivio Storico Città di Torino)

Ad iniziare questi appunti sul Piemonte che si fa storia e narrazione, prendendo corpo nella letteratura e nelle arti, sarà La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino.

Questo racconto lungo un’ottantina di pagine, che ebbe una gestazione di dieci anni, tocca i temi «della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione» (p. VI) e nasce dall’incontro con «il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso» (p. 20).

Lo scrittore ligure visse lunghi periodi a Torino tra il 1945 e il 1964, illuminati dall’amicizia con Cesare Pavese e dalla duratura collaborazione con Einaudi e il gruppo di intellettuali che gravitavano intorno alla casa editrice (tra cui Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio).

Nel 1963 pubblicò La giornata d’uno scrutatore, ambientato al Cottolengo, dove svolse questo ruolo nel 1961, dopo una prima visita come candidato nel ‘53.

Si tratta di un caso emblematico di narrazione in cui l’ambiente è il motore della storia.

Attraverso le calibrate descrizioni, incalzate dalle riflessioni e da asciutti dialoghi, il lettore segue il protagonista Amerigo Ormea nel suo viaggio verso e dentro l’universo del Cottolengo.

L’istututo si estende tra quartieri popolosi e poveri, è formato da «asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole», dai contorni irregolari «come un corpo ingrossato via via» (p. 6).

Il nome di San Giuseppe Cottolengo, «quel semplice prete che tra il 1832 e il 1842 aveva fondato e organizzato e amministrato in mezzo a difficoltà e incomprensioni questo monumento della carità sulla scala della nascente rivoluzione industriale» «aveva perso ogni connotazione individuale per designare una istituzione famosa nel mondo». Lo stesso nome che portava in sé il riconoscimento per l’opera della Piccola Casa della Divina Provvidenza era divenuto contemporaneamente «nel crudele gergo popolare […] epiteto derisorio [per indicarne i malati] abbreviato, secondo l’uso torinese, alle sue prime sillabe: cutu» (p. 7).

La giornata d’uno scrutatore si svolge nel 1953, ai tempi della cosiddetta “legge-truffa”, basata su un cospicuo premio di maggioranza elettorale. Il Cottolengo, che «da asilo, fra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere», incutendo rispetto per la sua missione sociale «anche nei più distanti da ogni idea religiosa» (p. 5), è sotto accusa in quell’epoca come roccaforte di voti estorti a favore del partito di maggioranza.

Con il procedere del racconto Amerigo abbandona le sovrastrutture del ragionamento che si dipanano intorno al voto ai disabili psichici e ai menomati e si inoltra «al di là delle frontiere del suo mondo» (p. 6).

Nella sua discesa nel dolore, che Calvino descrive senza retorica, lo scrutatore incontra i «ragazzi-pesce [che] scoppiavano nei loro gridi» (p. 65), i derelitti costretti su un seggiolone tra il puzzo dei propri bisogni, controllati da un compagno di sventura dalle condizioni meno gravi, ma anche gli occhi «chiari e lieti» della suora che «aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro» (p. 71) e l’uomo a cui mancavano le mani, grato di essere stato accolto con amore e aver imparato tanti mestieri.

L’esperienza al Cottolengo, unita ad un cambiamento radicale che si prospetta nel suo privato, offre al protagonista un’apertura alla vita prima sconosciuta, di cui è emblema il comprendere l’amore viscerale che lega un padre e un figlio al di là della malattia. «L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo» (p. 72).

Le città come i sogni

Vari studi e pubblicazioni si soffermano sulle tracce e le testimonianze che il Piemonte ha impresso nelle opere letterarie e artistiche delle diverse epoche.

L’intento che sta alla base delle note di questo blog è di provare a leggere in controluce le “storie” narrate da autori piemontesi o legati al Piemonte alla ricerca dei luoghi della nostra regione, dei modi in cui l’ambiente interagisce o è presenza muta, e se possibile dei valori, suggestioni e paure che lo caratterizzano.

I primi passi di questo viaggio conducono ad uno dei luoghi simbolo di Torino, il Cottolengo, ritratto da Calvino ne La giornata d’uno scrutatore del 1963.