Abbiamo intervistato la dottoressa Ada Fichera, che avevamo già avuto modo di conoscere durante il Master in Teoria e Tecnica di Comunicazione Politica e Istituzionale presso l’Università Popolare degli Studi di Milano.
Il suo ultimo libro sta diventando un successo editoriale. Si intitola “L’Italia del ‘bello scrivere’ – Storie del giornalismo cultura dalla terza pagina ad oggi.” Una analisi storica, sociologica e filosofica, del giornalismo culturale di ieri e di oggi in Italia. Dalla “Terza pagina”, perfetto connubio di letteratura e informazione, alle rubriche dei quotidiani odierni, Ada Fichera ripercorre più di un secolo di storia culturale del nostro Paese, narrando le vicende, ma anche le polemiche e i dibattiti relativi a un mondo tanto affascinante quanto complesso.
C’era una volta la terza pagina, una invenzione tutta italiana, con contenuti culturali e di critica letteraria, all’interno della quale per il gusto del “bello dello scrivere” e del leggere si concentrava il vanto dei grandi quotidiani. Molti affermano che il suo declino sia dovuto all’avvento del web: anche gli esperti e i giornalisti più blasonati infatti oggi possiedono un blog su cui possono approfondire tematiche che non troverebbero spazio nell’incapsulamento di uno schema finito e limitato come le pagine a stampa.
Tuttavia, il primo quotidiano storico ad abbandonare la Terza pagina fu «La Stampa», nel 1989, ben prima dell’avvento del World Wide Web (che nascerà solo nel 1991 e solo per pochi, mentre il primo blog ad esempio comparirà nel 1997).
Alcuni spiegano che la terza pagina si sia solo spostata nei supplementi come «Tuttolibri», «La Domenica» (Sole 24 Ore) e «La Lettura» (Corriere della Sera).
Quale è la sua percezione di questo cambiamento? E poi: è possibile “fare cultura” anche con la rete?
Il cambiamento, più che una percezione, direi che è un dato di fatto, e non è riscontrabile solo sui giornali, ma ritengo che sia un segno dei tempi relativo al panorama culturale del nostro Paese. Abbiamo una involuzione, più che una evoluzione, nell’ambito dell’affezione alla lettura, al sapere umanistico, alla rilevanza di una formazione culturale in tutti gli ambiti (si veda la politica attuale, la tv, etc…).
Non si vuole comprendere che un Paese senza cultura e senza storia è un Paese senza identità e senza forti radici, ed essendo privo delle quali rimane come un palazzo in cemento costruito su basi di biscotto!
Il punto però non è nostalgicamente lamentare ciò che non va o ciò che è cambiato, ma presa coscienza, con realismo, del problema si deve capire come affrontarlo e con quali mezzi, anche “nuovi”, si può fare cultura oggi.
Da questo punto di vista anche la rete può aiutare, anzi è essenziale ormai. Giornali on line, comunicazione social ed altro sono fondamentali, basta che non vengano visti come sostitutivi. Io ritengo che Internet e la comunicazione veloce dei social sia un ottimo mezzo e un supporto all’informazione culturale, ma le pagine culturali e i supplementi settimanali non possono essere considerati qualcosa di vecchio, semmai bisogna lavorare in modo aggiornato per porgere al lettore anche quello che può sembrare per lui ostico, ma se non si scommette, se non si alza l’asticella, come si fa a pensare di compiere un salto… L’uomo, come scrivo nel mio ultimo libro, è geneticamente fatto per elevarsi. Abbiamo l’obbligo di guardare in alto, senza farci al contrario travolgere dall’abisso.
Che il mondo dell’editoria, e quello dei quotidiani nazionali, sia in crisi, è un dato di fatto. Basta guardare le classifiche di vendita, in calo ormai da una decina d’anni. Inoltre, come Lei stessa afferma, gli editori non hanno abbastanza fondi per finanziare, come fanno all’estero, servizi di grande spessore. Come potrà uscire la stampa italiana da questo enpasse? Forse lavorando insieme ad altre testate come è successo nell’inchiesta sullo scandalo dei Panama Papers, in cui giornalisti di ogni parte del mondo si sono aiutati nelle ricerche scambiandosi dati preziosi e svolgendo un lavoro di investigazione di gruppo?
Beh, tutte le soluzioni, se finalizzate a dare benzina ad un mondo che ha un motore in difficoltà, sono ben accette. Non può essere questa, tuttavia, l’unica maniera per uscire da tale enpasse.
Intanto credo che debba necessariamente ricrearsi una coscienza di Stato relativa agli investimenti per la cultura. Un Paese che non investe in cultura è un Paese già morto.
Spesso la politica vede il mondo dell’editoria come un nemico o come uno strumento a proprio uso e consumo, manca un vero progetto statale in Italia che abbia come suo scopo l’investire sull’editoria e sull’informazione a lungo termine e che intenda l’editoria e il mondo del giornalismo come un patrimonio da tutelare e sul quale spendere. Basterebbe guardare ad altri paesi europei, come l’Olanda, dove gli investimenti anche per i reportage sono di tutt’altra portata, o in Inghilterra relativamente alla promozione e diffusione capillare dei giornali.
Inoltre, l’augurio può essere quello che un settore, che a volte può apparire datato, trovi il coraggio e la volontà di rinnovarsi, aprendosi anche ad una classe giornalistica e di scrittori nuova, più giovane, sulla quale scommettere. Invece, di fronte alle difficoltà, come spesso accade, ci si arrocca sulle proprie posizioni e ci si chiude a tutela dei propri spazi. Questo è uno dei primi errori. Servono ancora, e sempre, le grandi firme e i grandi maestri, ma non si può pensare che tale mondo possa rinunciare per questo a rinnovarsi tramite nuove firme, e quindi nuove idee e nuova linfa che possa fecondare un terreno un po’ inaridito.
Se invece il metro è quello di prendere i giovani per collaborazione estern per dargli 10 euro a pezzo, la vedo difficile. E quindi non ci si può impressionare se poi il lettore medio sotto i 30 anni in Italia non legge i quotidiani o li sente lontani da sé e poco utili.
A questo aggiungerei che inserire la lettura dei quotidiani, almeno una volta a settimana, in classe, sarebbe non solo utile, ma formerebbe una classe di lettori del domani. Se non lavoriamo per investire sui lettori giovani che sono “gli italiani del domani”, come possiamo pensare di sopravvivere…?
Vittorio Sabatin nel libro “L’ultima copia del New York Times” spiega come secondo i calcoli di Philip Meyer, studioso dell’editoria americana, l’ultima sgualcita copia su carta del “New York Times” sarà acquistata nel 2043. La crisi di vendite che affligge i quotidiani da una ventina d’anni lascia pensare che la previsione sia realistica, se non addirittura ottimistica. Eppure, nell’ultimo capitolo del Suo libro, “L’Italia del bello scrivere”, Lei fa intendere come i dati dichiarino un declino del digitale (-15,9%) rispetto al cartaceo (+9,2%) in Italia. Tuttavia, Lei spiega che i giornali all’estero hanno saputo reinventarsi. Chi ha avrà ragione secondo lei?
Io non credo e, mi perdoni, mai crederò all’estinzione della carta. Mi capita frequentemente di girare l’Italia per la promozione dei miei libri e di trovare sempre, anche molti giovani, che amano ancora l’odore della carta del libro appena edito o che manifestano la preferenza di leggere una rivista su carta.
Il digitale ha una buona diffusione e ormai è essenziale, anche io che leggo tutte le mattine una media di quattro o cinque quotidiani, di questi, due, per abitudine e per praticità, li leggo tramite tablet e abbonamento on line. Girando spesso, e avendo la “malattia della rassegna quotidiana” appena sveglia, trovo utilissimo e comodo avere alcuni giornali principali disponibili subito e in qualsiasi posto. Però poi scendo all’edicola quando sono a casa a Roma, o cerco un giornalaio ovunque sia in Italia, per leggere su carta gli altri due o tre quotidiani che prediligo ogni giorno, perché il vero lettore non sa rinunciare all’odore del giornale della mattina o alla bellezza del fruscio delle pagine, non può rinunciare a stringere la copia tra le proprie mani.
E come me, per fortuna, ancora i molti condividono queste sensazioni.
La prova l’abbiamo del resto dalla sfera degli e-book. Un esperimento che gli stessi editori, per problemi di costi elevati con la carta, hanno provato con determinazione a spingere solo qualche anno fa, ma che a breve ha dimostrato che, per quanto siamo nell’epoca del digitale, in larga parte, un buon libro è ancora letto preferibilmente nel formato di carta.
Credo sia non solo un problema di fascino e romanticismo da lettore, piuttosto la scienza ci supporta. Un recente studio americano ha provato infatti che ciò che leggiamo dall’oggetto libro viene recepito più in fretta e memorizzato in maniera migliore e più a lungo per un fatto di percezione del cervello. Poi trovo, personalmente, che la vista faccia meno fatica a leggere su carta anziché su pc o tablet. Io, ad esempio, posso leggere 100 pagine cartacee nel tempo in cui leggo 20 pagine digitali!
Credo quindi che il lettore accanito, che molto legge, tende sempre a preferire la carta, mentre il digitale resta relegato ad un lettore molto giovane e/o comunque a colui che legge poco. E del resto, ripeto, i dati di vendita e-book, anche di uno stesso libro, danno testimonianza che si legge di più il formato cartaceo.
Si parla spesso di post-verità, fake-news. Ai tempi in cui era possibile informarsi unicamente tramite i giornali, il filtro del bravo giornalista impediva che questo genere di notizie trapelassero e si diffondessero con la stessa rapidità con cui si diffondono oggi tramite i social network.
Si sta ancora dibattendo su quali siano le regole e le tecniche da adottare per impedire che le false-verità siano messe sullo stesso livello delle notizie verificate da fonti certe.
Alcune testate si sono autoregolamentate, con una sorta di carta dei doveri, all’insegno del fact checking. So che è una domanda che ancora forse non ha risposta, ma come pensa sia possibile diminuire il diffondersi di questo genere di pseudonotizie attraverso la rete? C’è un antidoto o quanto meno un metodo per difendersene?
Difficile, forse impossibile, trovare una soluzione o individuare un antidoto. Con la fruizione così varia e rapida, anche dei social network che a loro volta rilanciano notizie da altri siti, è davvero difficile. Forse uno strumento di difesa di buona qualità può essere quello, semplice e antico ma probabilmente ancora valido, del verificare la fonte, ossia valutare prima di tutto l’attendibilità della testata che la comunica o della firma che la mette in circolo.
L’Italia del “bello scrivere”
Storie di giornalismo dalla Terza pagina ad oggi
MINERVA