“White noise”. I paesaggi urbani sofferenti ed hardcore di Botto&Bruno

«Calore. Ecco che cosa significano per me le città grosse. Si scende dal treno, si esce dalla stazione e si è presi dalla scalmana. Il calore dell’aria, del traffico, della gente. Il calore del cibo e del sesso. Il calore dei grattacieli. Il calore che esce dalla metropolitana e dalle gallerie. Nelle città grosse ci sono almeno cinque gradi di più. Il calore si leva dai marciapiedi e cala dal cielo inquinato. Gli autobus sbuffano calore». “White noise” (Rumore bianco) è il titolo del romanzo più famoso di di Don DeLillo pubblicato nel 1985, uno dei capisaldi della letteratura americana contemporanea. “White noise” è il titolo della mostra di Botto&Bruno ospitata dalla galleria Alberto Peola fino al 3 febbraio.

Formatisi all’Accademia Albertina di Torino, Gianfranco Botto (1963) e Roberta Bruno (1966) iniziano la loro collaborazione artistica nei primi anni Novanta e da allora percorrono le disordinate scenografie delle periferie urbane. Meticolosi selezionatori di immagini, la loro arte nasce da un processo di stratificazione e richiede un lento tempo di esecuzione. Nelle loro opere, ricche di rimandi letterari e musicali, troviamo paesaggi apocalittici, mondi in decomposizione, scenari desolati fatti di edifici disabitati, oggetti abbandonati, plastiche colorate e deformate, cemento e ferro arrugginito, terreni coperti da detriti e cieli grigi.

Botto&Bruno, “White noise”, 2017

«Ecco la radio con i suoi altoparlanti – scrive la curatrice della mostra, Lea Mattarella – costruzioni di ruote di gomma per automobili, autobus fermi da chissà quando, macchine bruciate, case di lamiera, silos, gru, rovine, una tastiera, massi accatastati, piccoli e grandi esplosioni, frammenti di uomini e di donne di cui possiamo vedere solo una parte del corpo, mai il viso (e questo è tipico della coppia di artisti: celare sguardi, espressioni). Poi ci sono le parole, un bianco e nero chiamato a smorzare o a esaltare toni e timbri». La mostra si apre con il lavoro intitolato “White Noise”, «perché il romanzo di DeLillo ci pare attuale – spiegano gli artisti – racconta di una famiglia la cui vita viene sconvolta da un incidente che provoca la fuoriuscita di una nube tossica. Il paesaggio diventa così un luogo pericoloso. Abbiamo creato un pulviscolo visivo utilizzando frammenti di riviste. Non c’è un’idea prospettica ma un magma visivo che richiede di essere osservato a lungo, con attenzione. È come se avessimo allargato il nostro punto di vista, quello che era in primo piano si è allontanato. Lo sguardo contemporaneo sulle cose è sempre più distratto: immersi in troppe immagini siamo come assuefatti, invece le persone devono fermarsi e contemplare per decifrare le immagini». Un mondo stratificato, di fuochi ed esplosioni, una città che è diventata una gigantesca periferia che “trasuda caldo”, che sembra sciogliersi, trangugiando nello stesso momento oggetti e storie, edifici e vite vissute al loro interno.

Nella seconda sala della galleria troviamo un’installazione in bianco e nero. Il punto di partenza sono le “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne. «Siamo partiti dalla dimensione fantastica per poi raggiungere il reale. Abbiamo selezionato delle incisioni d’epoca in bianco e nero, quindi fotocopiate e ingrandite manualmente, poi vi abbiamo inserito immagini prese da foto, anche queste in bianco e nero, realizzate all’inizio della nostra attività artistica. Quindi siamo intervenuti con migliaia di piccoli segni realizzati con il pennello che si utilizza per gli ideogrammi giapponesi, andando a ricoprire personaggi e oggetti, inglobandoli in una vegetazione nera e vibrante, forse spaventosa ma comunque viva. La stanza, con i fogli stropicciati che ne occupano la parete, diventa così una grotta abitata da una natura che sembra voler riprendere il sopravvento sulle sedimentazioni umane. Una natura in bianco e nero che, forse, potrà ritrovare i suoi colori».

Quella di Botto&Bruno non è banalizzabile ricorrendo all’etichetta di ‘arte di denuncia’, infatti, partendo dalla marginalità e dal degrado sociale e spirituale, nei loro lavori si fa strada la ricerca di una nuova estetica, uno sguardo realistico eppur visionario, lucido ma inquieto, che osserva la trasformazione cercando di cogliervi non solo quanto vi è di inquietante e disturbante ma il lato malinconico e poetico.

La mostra si chiude con una terza stanza che raccoglie sette lavori uniti da un fregio. “Future islands” sono paesaggi sofferenti, che paiono recare tracce di una vecchia malattia ma che portano in sé la speranza che qualcosa possa rinascere, che si possa riconoscere una cura. «Abbiamo sperimentato una tecnica nuova. Spesso partiamo dal nostro archivio e realizziamo collage manuali utilizzando foto di luoghi lontani nel tempo e nello spazio. Ritagliamo i particolari che ci interessano, li ricomponiamo in scene apparentemente realistiche ma in realtà falsate e stranianti. In questo caso, invece, abbiamo strappato frammenti di immagini dalle riviste che conserviamo nel nostro archivio utilizzando uno scotch trasparente, e dall’accostamento di queste piccole immagini ne sono scaturiti dei paesaggi acquerellati sui quali abbiamo sovrapposto testi di gruppi musicali della scena hardcore dell’inizio anni Ottanta, una musica frenetica, accelerata, nevrotica, dura. Ci piace parlare di paesaggi “hardcore turneriani”. Mentre “Society, you’re a crazy breed”, il lavoro realizzato per la Fondazione Merz nel 2016, era un’unica grande installazione immersiva, qui lo zoom non si allarga ma si restringe. I frammenti strappati dalle riviste danno vita a una texture indistinta ma da vicino riconosci le immagini e gli oggetti. Ogni piccolo frammento racconta una storia, è una traccia. Ognuno di noi, in base alla propria esperienza di vita, può ricostruire una storia personale».

«Siamo nati e cresciuti in periferia – raccontano Botto&Bruno – viviamo e lavoriamo a Mirafiori, quindi le periferie le conosciamo bene al di fuori degli stereotipi. In questi luoghi cerchiamo una possibile bellezza: che esiste, anche se non è convenzionale, è underground, la devi andare a scoprire. Abbiamo assistito alla trasformazione delle periferie che da zone industriali sono diventate luoghi anonimi. Sulle macerie delle ex fabbriche si aprono supermercati. Le fabbriche erano posti ricchi di storia, rappresentavano un’icona estetica, c’era un’energia legata al lavoro, sono state cancellate in modo frettoloso, abbattute per costruire case che magari non si riesce neppure a vendere o trasformate in luoghi di puro consumo. Un tempo le periferie avevano un’identità precisa, ora sono tutte uguali, riempite da casermoni e centri commerciali, luoghi senza identità, senza relazioni, senza collante sociale e culturale. Al pieno urbanistico ed architettonico si associa il vuoto esistenziale. Oggi si parla molto di periferie, forse perché stanno sparendo. Quando si inizia a fare teoria su un qualcosa, è perché sta scomparendo».

http://www.albertopeola.com

Emanuele Rebuffini