Silicon Valley made in Torino

Marco Ferrando su Il Sole 24 Ore

Visto dal finestrino dell’aereo, il Politecnico di Torino non si distingue facilmente. È come se Torino, gelosa, volesse abbracciarlo, quasi nasconderlo. Non è un caso, o un’illusione ottica: l’ateneo è integrato, profondamente, con il resto della città. Ed è curioso che questa integrazione quasi perfetta emerga proprio oggi che Torino rinasce così come era stata immaginata negli anni Novanta, all’alba dei primi ripensamenti da post-fordismo. D’altronde negli ultimi vent’anni del Politecnico c’è la storia recente di tutta una città e del tessuto socio-economico che la compone. Le stesse tensioni, paure, limiti che l’hanno segnata dalla fine degli anni Ottanta, ma anche i valori, e le scommesse. Poi le prime, e per questo significative, risposte.

È guardando al Politecnico che si trova una città al centro di una crisi profondissima ma che sembra aver ritrovato la strada. Perché ha ripreso ad applicare formule vincenti, che combinano elementi vecchi e nuovi: la tecnologia e la passione per il lavoro, componenti fondamentali del ben noto “paradigma dell’ingegnere”, con l’apertura all’altro, al diverso, al nuovo. Una città che negli ultimi anni si è scoperta capace di fare sintesi nuove e di costruire nuovi progetti di sviluppo. Forse perché forte anche di un progetto, nuovo, di persona.

Un processo che non è passato inosservato a una mente selettiva come quella di Sergio Marchionne: «Avete la fortuna di essere cresciuti in un’istituzione che ha saputo cogliere in anticipo le tendenze della società moderna – ha detto agli studenti radunati in aula magna quando ha ricevuto la laurea honoris causa, nel 2008 -. Perché qui c’è l’idea che, alla fine di tutto, il vero obiettivo è l’uomo e la società in cui vive». Un uomo non solo più faber, com’era l’operaio di Mirafiori, icona della Torino fordista in piedi fino agli anni Ottanta. Ma uomo della conoscenza, cittadino, consapevole di un saper fare ma soprattutto di un certo modo di essere, come ama ripetere Francesco Profumo, rettore dell’ateneo dal 2005.

Per completare la Cittadella servono ancora nuovi spazi per ospitare attività di ricerca, ma anche la piattaforma sportiva, fondamentale per assegnare definitivamente alla Cittadella l’identità del campus. Un campus all’italiana, però. Anzi, alla torinese. Una sorta di declinazione in chiave subalpina di quel modello americano che nella Silicon Valley ha trovato le sue migliori espressioni. Di californiano, dentro alla Cittadella politecnica, c’è quello che conta di più: l’apertura internazionale e le imprese dentro all’università.

Di torinese, piuttosto, c’è la scelta della collocazione: «Il campus si trova nel cuore della città, un elemento tutt’altro che secondario e assolutamente originale rispetto ai modelli americani», fa notare John Elkann, che al Politecnico ha studiato alla fine degli anni Novanta. In California i grandi campus, da Stanford a Berkeley, si trovano nelle periferie delle loro metropoli, «noi abbiamo scelto di crescere dov’eravamo», ricorda Rodolfo Zich, rettore dell’ateneo dal 1987 al 2001, nella lunga fase che ha visto prendere forma e partire il progetto del raddoppio. Una scelta emblematica, quasi una naturale conferma del fatto che dentro a Torino da sempre batte un cuore industriale e tecnologico. «Così facendo, abbiamo regalato a questo territorio un luogo fisico in cui ha potuto toccare con mano che l’economia della conoscenza non è un concetto astratto ma una concreta via di sviluppo», aggiunge Profumo.