Per Fassino Torino non è in decadenza, ma è indubbiamente fra le città messe peggio in una crisi generale devastante

I giochi lessicali di Piero Fassino sono acrobatici: Torino non è una città in declino, ma è nel range di una crisi internazionale che non risparmia nessuno. 

“NON siamo una città in declino”. Piero Fassino respinge questo giudizio senza mai citare la paternità che, come molti sanno, appartiene all’arcivescovo, Cesare Nosiglia il quale nell’omelia dell’Assunta, quattro giorni fa, ha invitato a pregare, appunto per il lavoro e contro il declino di Torino. “Se fossimo solo noi in difficoltà, nel contesto più generale di un paese e di un’Europa in buona salute, allora si potrebbe parlare di declino. E invece mi pare che Torino stia nel range di una crisi internazionale che non risparmia nessuno. Ecco perché dico che non siamo un’isola infelice in mezzo a tante isole felici, ma siamo uno dei moltissimi territori alle prese con gli effetti di una crisi senza precedenti”.

Il sindaco sa che questa replica, affidata a una garbata telefonata, non esaurisce l’argomento che sta occupando le pagine di questo giornale e che, verosimilmente, sarà uno dei temi centrali dell’autunno. Si ripromette infatti di parlarne nel corso della Festa settembrina del Pd. “Lo faremo e affronteremo tutti gli argomenti senza remore e senza riserve”, promette. “Come abbiamo sempre fatto, assumendoci le responsabilità e pretendendo che lo facciano anche gli altri”. Il suo per il momento ha l’aria di essere è un ragionamento sullo stato della città e sulle sue prospettive. Che, a suo dire, non sono quelle che si vuole far credere che siano, senza che questo venga letto come una situazione in cui tutti va bene. “Si tratta di aprire un dibattito a più voci che aiuti ad affrontare i problemi e a risolverli, con impegno ed evitando giudizi affrettati”.

Per parte sua alla visione di una città in declino contrappone quella di una città in evoluzione e che, afferma, “per molti aspetti già cambiata”. Ed eccoci al punto. “Non possiamo pensare che dipenda tutto dalla Fiat come accadeva in passato”, osserva. E spiega che nella rivoluzione che sta scuotendo l’economia mondiale, mandando in frantumi tante certezze e creando altrettante incertezze, la vita e lo sviluppo delle città sono profondamente mutati. “Non ci sono più città a una sola vocazione, ma città con più vocazioni”, dice. E cita il caso di Pittsburg che non è più come una volta la città siderurgica e basta, Clermont Ferrand che non è più la città dei pneumatici e basta, e dunque Torino che ormai non “può essere considerata la città dell’automobile senz’altra aspirazione”.