Vista lago con delitto

Marco Polillo, Il pontile sul lago
Marco Polillo, Il pontile sul lago

Un giallo e un poliziesco ma anche un’indagine sui sentimenti è Il pontile sul lago di Marco Polillo, edito da Rizzoli nel 2011.

L’autore, già direttore generale di Mondadori e di Rizzoli, ha fondato nel 1995 la casa editrice che porta il suo nome. Appassionato da sempre di gialli, ha pubblicato Testimone invisibile (1997) ed ha dato inizio con Corpo morto, del 2009, alla trilogia che ruota intorno al commissario Enea Zottìa, proseguita con Il pontile sul lago e poi con Villa Tre Pini del 2012.

L’ambientazione rievoca l’atmosfera del paese che da il nome al lago d’Orta, a cui si riferisce il titolo. Una storia millenaria, una bellezza elegante e romantica per un luogo appartato rispetto al Maggiore ma molto frequentato da turisti e da «habitué, quelli che ogni venerdì sera, d’estate come d’inverno, arrivano in automobile da Milano, Novara, Torino o altre città, grandi o piccole, per passare lì il fine settimana» (p. 88).

Ben presto dalla narrazione emergono i ritmi e le regole non scritte di una piccola comunità: la vicenda si svolge in appena quattro giorni tra molti luoghi reali del comune lacustre, in primis il caffè dove quattro «compagni d’aperitivo» (p. 14) si ritrovano ogni giorno per questo rito, nel «tranquillo ron ron del vecchio borgo medioevale» (p. 155).

Tancredi Vallesi, reso claudicante da un incidente, «come si ostinava a chiamarlo» (p. 13), il radiologo in pensione Stefano Garavini, «un misantropo solitario» (p. 26), Mario Giombelli «festoso, sorridente, eccessivo, ingombrante» (p. 18), ma pure per altri «una boccata d’aria fresca» (p. 19). E il grande assente.

Gennaro Vattuone, «il Professore, quello con le iniziali maiuscole, il terrore della scuola, “Vaff’uone”, come lo chiamavano tutti» (p. 10), la cui uccisione da il via all’inchiesta dei carabinieri del luogo, guidati dal Maresciallo Danova, a cui viene in aiuto il vicecommissario Enea Zottìa della Questura di Milano, chiamato dal figlio della vittima.

Il medico del paese Emanuele Tibiletti, l’avvocato Giacomo Favinio e alcuni rilevanti personaggi femminili emergeranno con le loro scelte una volta che il lettore si sarà inoltrato nella storia.

Speculare alla figura del padre Gennaro, autoritario e spregiudicato, è quella del figlio, il notaio Fabio Massimo, che scopriamo nella dolcezza e sensibilità del suo carattere e nelle pieghe del controverso rapporto con il genitore.

La materia del giallo si fonde con l’analisi dell’interiorità dei personaggi, sia nel suo risvolto tanto oscuro da portare a ideare o commettere un omicidio, sia in quello che si dipana lungo le linee dell’amore.

Mentre sboccia un tenero sentimento tra i giovani Chicca e Graziano, Enea Zottìa si rivela non solo l’acuto inquirente che troverà chi ha compiuto l’assassinio del pur ripugnante Vattuone, ma anche il protagonista di un intreccio che lo vede marito di Enza e innamorato invece di Serena, con “inseguimenti”, riavvicinamenti e colpi di scena tra Milano ed Orta. Il sottile investigatore è anche un uomo sensibile, con molte fragilità e indecisioni.

Dal canto loro, Chicca e Graziano contrastano fortemente con l’ipocrisia della società incarnata dalla generazione dei loro padri, ma quasi senza accorgersene, con l’assoluta normalità delle loro vite fatte di lavoro in albergo o nello studio legale, amicizie vere e incontri che fanno battere il cuore, mentre la figlia dell’avvocato Favinio, Cristiana, sentirà la necessità di allontanarsene anche fisicamente.

«Ho vissuto sempre ad Orta, non si può dire che conosca il mondo. Cosa potevo fare in un posto come questo? Niente. E io volevo cambiare, vedere il mondo, andare a vivere in una grande città, avere esperienze, diverse, conoscere gente. La vita della provincia, della piccolissima provincia, a me va stretta […]. Lei non può immaginare come sia difficile vivere in un paese come questo. Soprattutto quando si è nati qui. Vuol dire conoscere tutti, e se c’è qualcuno che ti piace vuol dire portarselo con sé tutta la vita, anche quando si tratta di un macroscopico errore» (p. 199).

Un ruolo preponderante in questo romanzo hanno infatti il “paese” e la “città”. Le caratteristiche positive e negative dell’uno e dell’altra tornano in più punti ad incidere nelle vite e nei modi di pensare dei protagonisti.

Due pensieri di Enea Zottìa agli inizi e al termine del libro riassumono bene questo eterno rapporto dialettico: «Come potevano pensare in quel paesino di riuscire a scovare il colpevole di un omicidio in un modo così poco professionale? Gli venne in mente Positano. Anche lì era stato fatto tutto in maniera dilettantesca. Forse nei piccoli paesi si faceva ancora così» (p. 51), ma poi: «Quel piccolo microcosmo nel quale aveva vissuto per meno di settanta ore se l’era sentito amico, una sensazione che di rado provava nel suo mestiere, e non poteva dirsi contento di tornare a casa, nella grande e anonima Milano» (p. 257).

 

Tullio Regge o dell’infinito cercare. Parte seconda

«Mio padre mi annunciò che l’indomani mi sarei dovuto trasferire dai nonni materni […], dove mia nonna Rosmina era anche la portinaia dello stabile. Mi dette qualche soldo e mi fece partire in fretta, in treno. Il giorno dopo mia mamma partì per Borgo d’Ale, e la settimana seguente si nascose anche lui […]. Non metteva mai fuori il naso, perché era un notorio fascistone, e a quei tempi si ammazzava per niente» (p. 14). Pagine dense di commozione rievocano la scia di morti, la paura e l’orrore che contraddistinsero l’epoca della fine della guerra e delle rappresaglie, anche nella piccola Borgo d’Ale.

Mentre l’Italia riprende a vivere ha inizio per Regge la stagione degli studi universitari, il biennio al Politecnico di Torino e poi la Facoltà di Fisica. Qui si apre un mondo di incontri, scoperte, viaggi che lo porterà negli Stati Uniti, a Rochester e poi a Princeton, e di nuovo in Italia, come ricercatore e come docente.

L’attività scientifica si intreccia con la vita famigliare, il matrimonio con la fisica Rosanna Cester, da cui nascono Daniele, Marta e Anna, la conoscenza o la collaborazione con scienziati di livello mondiale, tra cui vari premi Nobel, nel ricordo dei quali hanno grande rilievo le peculiarità caratteriali di ognuno.

Nel descrivere l’approccio con le appassionanti ricerche condotte, lo scienziato usa a più riprese una parola chiave, “divertimento”, che si rivela una costante nel modo di affrontare questo aspetto così vitale della sua esistenza, ma mai dominante rispetto alle relazioni umane.

Dopo la feconda esperienza americana Tullio Regge torna con la famiglia a Torino. È il 1978-79. Nel prendere la decisione «a parte le motivazioni professionali, un peso determinante lo ebbe Torino, che per me ha un significato profondo. Sono molto legato a questa città, alla stessa cultura che esprime. Né dimentico che Torino ha una lunghissima tradizione scientifica, fin dai tempi dell’Illuminismo e di Lagrange – scienziato all’altezza di Galileo, Newton, Einstein – che però molti conoscono solo perché dà il nome ad una nota strada» (p. 115).

Verranno anni di insegnamento, divulgazione della scienza ad un pubblico il più possibile ampio attraverso conferenze, libri e strumenti informatici, realizzazioni che coniugano arte e modelli matematici, l’esperienza al Parlamento Europeo e ancora incontri.

Emblematico, per quanto permette di leggere di entrambi gli interlocutori, quello con Primo Levi: «A metà cena fece una pausa improvvisa e, quasi casualmente, disse: «Tra parentesi, durante la guerra sono stato in campo di concentramento». Un’espressione di una sobrietà monumentale. Non seppi cosa rispondere e temo di aver blaterato qualche nonsenso. Molti anni dopo fui invitato a visitare la Polonia. Finii a Cracovia e quindi ad Auschwitz. Passai sotto il cancello con l’infame scritta: «Arbeit macht frei» («Il lavoro rende liberi»). Vidi il film girato dall’Armata rossa. Ascoltai la Marcia funebre di Beethoven. Vidi fotografie spaventose, terribili. Lessi statistiche terrificanti. Pensai a Primo. Con tutto ciò, ancora oggi continuo a non sapere cosa avrei potuto dire per sostenere con lui una conversazione sull’Olocausto» (p. 135).

Tullio Regge o dell’infinito cercare. Parte prima

Tullio Regge con Stefano Sandrelli, L’infinito cercare

Un intreccio indissolubile di scienza e vita, scoperte e affetti è l’“autobiografia di un curioso” L’infinito cercare. A dipanarlo, con la piacevolezza di una chiacchierata, è Tullio Regge, accompagnato dal giornalista scientifico Stefano Sandrelli.

Lo scienziato, nato a Torino nel 1931, è considerato uno dei maggiori fisici teorici viventi. Insignito di riconoscimenti quali l’Albert Einstein Award e la medaglia Dirac, si devono alla sua ricerca, tra le altre scoperte, i “poli” e il “calcolo” che ne portano il nome.

Attualmente professore emerito del Politecnico di Torino, è anche un divulgatore: ne sono esempi il Dialogo scritto con Primo Levi (1987), Infinito (1994), L’universo senza fine (1999) o la Lettera ai giovani sulla scienza (2004).

L’autobiografia prende le mosse dalla nascita, nella casa degli amatissimi nonni materni in corso Quintino Sella a Torino. L’infanzia trascorre «in corso Casale, nel quartiere della Madonna del Pilone, in un appartamento che sorgeva di fronte all’ultima dimora di Emilio Salgari, che rimase poi uno dei miei autori preferiti, con quei suoi personaggi «fedeli ad un cavalleresco ideale di lealtà e di coraggio», come recita la lapide apposta al muro della casa» (p. 3).

Fin dalle prime pagine viene messo in luce il rapporto con il padre, il cui carattere è tratteggiato a chiaroscuro, l’essere “comandino” (come l’avrebbe definito la nonna materna) e l’adesione al fascismo accanto all’inesausta sete di sapere: «Anche se intorno alla metà degli anni Trenta eravamo piuttosto squattrinati, mio papà mi incoraggiava ad avvicinarmi alla scienza comprando tantissimi libri usati al Balôn, il mercato delle pulci» (p. 5). «Da lui ho preso molto: di sicuro gli devo, oltre alla testardaggine, anche la curiosità e l’amore per la scienza» (p. 4).

Presto Torino si trova sotto i bombardamenti: «Ricorderò sempre la fiumana di gente in corso Tortona, in fuga verso l’autostrada, che in quel momento di emergenza era aperta anche alle bici. Ricorderò sempre la rimessa dei tram devastata, le case crollate, le distruzioni… Così tante che non si contavano. Ricorderò sempre le madri aggrappate ai figli, che piangevano di terrore» (p. 8).

La famiglia si mette in salvo, dopo una corsa di cinquanta chilometri in bicicletta, a Borgo d’Ale, paese natale del padre Michele, che porta il nome del patrono della località del vercellese. Qui i Regge sono accolti affettuosamente: «Fecero accomodare i miei genitori in una camera da letto, mentre per me e mio fratello prepararono due lettini nella stalla, con balle di paglia e qualche coperta. C’erano anche tre mucche. Ricordo perfettamente i loro continui e caldi «muuh, muuh» notturni!» (p. 8).

Un anno trascorre tra partite a bocce e l’iscrizione in terza media al Seminario arcivescovile di Moncrivello, presso il Santuario della Beata Vergine del Trompone. Michele Regge trova poi lavoro come geometra al Comune di Venaria Reale. Qui Tullio fa la conoscenza delle tre figliolette di un militare, che si rivelerà tempo dopo essere un comandante delle SS, e dei pregiudizi contro gli emigrati dal Sud Italia.

– Continua –

Una guardinga spensieratezza lungo la linea di minor resistenza

Carlo Fruttero, La linea di minor resistenza

Un grande respiro poetico si dipana nelle scarne eppur dense pagine che compongono La linea di minor resistenza.

Carlo Fruttero, scrittore e traduttore, nato a Torino nel 1926, è noto soprattutto per i bestseller scritti con l’amico Franco Lucentini, in un sodalizio nato all’Einaudi alla fine degli anni Cinquanta (due per tutti: La donna della domenica e A che punto è la notte). “La ditta” firmò insieme anche articoli, traduzioni, e curò per venticinque anni la collana di fantascienza “Urania” della Mondadori.

Dopo la traumatica fine di Franco Lucentini, Fruttero tornò alla pubblicazione di opere narrative con Donne informate sui fatti, a cui seguirono Ti trovo un po’ pallida, il racconto per ragazzi La Creazione, il libro in parte autobiografico Mutandine di chiffon e l’ultimo, La patria, bene o male, scritto con Massimo Gramellini.

La figlia Maria Carla è stata testimone della nascita di La linea di minor resistenza, scritto di getto, «senza pause, senza incertezze […] una ballata lunga una vita, la sua vita» e per volontà dell’autore pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio di quest’anno.

«L’avevo in testa da vent’anni, ma non ero mai riuscito a scriverlo. Forse perché non era ancora il momento». Il momento delle riflessioni ultime, che sfogliano i mille dettagli attraverso i quali seppe rendere vivida nelle sue pagine la borghesia torinese, con le sue peculiarità e gli aspetti universali, per arrivare alla radice del viaggio di ognuno noi.

La linea di minor resistenza è in natura la via seguita dalla materia per evolvere, ne è esempio l’acqua che tende ad andare verso il basso se non diversamente incanalata.

Anche Jack London ne La crociera dello Snark ne fa menzione: «Nessuna spiegazione riesce a convincerli che in realtà stiamo seguendo la linea di minor resistenza, ossia che metterci per mare con una barca è per noi molto più facile che rimanere sulla terraferma […]. Non riescono a uscire da loro stessi quel tanto che basti per capire che la loro linea di minore resistenza non è necessariamente quella degli altri».

Nell’opera di Fruttero la linea di minor resistenza assurge a protagonista e si materializza negli acquerelli di Guido Della Casa: ai piedi di una rocca assediata, mentre guida soldati sulle montagne che vanno incontro a bagliori di guerra o ne fuggono, strappando attimi di libellule tra scempi di corpi e fame.

Sono «in marcia da gran tempo, stanchi ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme» i protagonisti di questo “poemetto”. Procedono «a ginocchi piegati, schiena curva, in silenzio […], l’occhio attento, l’orecchio ben spalancato al fragore della battaglia laggiù».

«Nello smeraldo di un prato» si apre per loro uno squarcio di illusoria pace. «Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti non lo era. In mezzo a noi languidi – appena un fruscio, un taglio nel bisso – precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi, più di una volta combattere sopprimendo il tremito, richiamando l’impigrito furore a denti stretti, l’urlo pronto a scoppiare, il braccio mulinante a caso nella mischia». E conclude, con brevitas fulminante: «Belve, tutti».

In questa guerra di ogni tempo, che è realtà e metafora, e «polverosi e ossuti» si combatte armati di una «daga incrostata», di «frecce scarse nella faretra», la quotidianità del cibo da racimolare si affastella ai morti senza sepoltura e alle riflessioni dei superstiti, che «oltre quegli ultimi cardi» stanno per giungere al traguardo comune, «lo stagno immobile».

«Soltanto una fuga è stata tutta la nostra marcia per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma non è stato proprio così, sempre così. C’erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga spensieratezza, di euforico abbandono, l’ombra del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva di correre più in fretta del sole, della vita».

Le città come i sogni

Vari studi e pubblicazioni si soffermano sulle tracce e le testimonianze che il Piemonte ha impresso nelle opere letterarie e artistiche delle diverse epoche.

L’intento che sta alla base delle note di questo blog è di provare a leggere in controluce le “storie” narrate da autori piemontesi o legati al Piemonte alla ricerca dei luoghi della nostra regione, dei modi in cui l’ambiente interagisce o è presenza muta, e se possibile dei valori, suggestioni e paure che lo caratterizzano.

I primi passi di questo viaggio conducono ad uno dei luoghi simbolo di Torino, il Cottolengo, ritratto da Calvino ne La giornata d’uno scrutatore del 1963.