L’allergia alla rivoluzione

allergia_rivoluzioneGli italiani sono allergici alla rivoluzione. Non alla parola, di quella fanno uso e talvolta abuso senza alcuna crisi respiratoria o di orticaria. Ma alla sostanza.

Le azioni rivoluzionarie sono praticamente il vero tabù italiano. Non che la scoperta sia mia, purtroppo è dato rilevato e arcinoto da parecchio. E’ che oggi più che mai il tallone d’Achille duole e fa a pezzi il cammino civile.

A me umanamente questa cosa stritola cuore e cervello. Vorrei capire ma non ce la faccio. Sono bloccata dal terrore. Quello di realizzare che è un male incurabile. Che non c’è prospettiva di liberazione.

Alla fine è meglio morire o vivere nella disperazione?

Drammatica domanda. Aggrapparsi emotivamente al battito della sopravvivenza è un impulso naturale, forse. Ma non potrebbe esserlo altrettanto, vista l’indolenza e la rassegnazione, consegnarsi alla sepoltura?

Nell’oscena tarantella della politica non c’è altro che la nostra miserabile italianità. Eppure lì ci diamo da fare con l’insulto e la condanna, quasi ci sollevasse da ogni altra incombenza, ci assolvesse da tutte le colpe e ci restituisse intatta la dignità.

Slabbrati e sfibrati come stracci lanciamo freccette fuori bersaglio. Un po’ ingenui, un po’ menefreghisti, un po’ flaccidi, un po’ intriganti.

E dove diavolo sono i fari dello spirito? In verità ci sono ma non hanno alcun appeal. Hanno perso smalto e carisma. O sono indaffarati in qualche alta strategia e si faranno vedere chissà quando solo ai pochi superstiti dello sbando totale.

D’altra parte i pochi volenterosi della rivoluzione, seria e pacifica, sono messi al palo. Come poveri illusi, noiosi predicatori, personaggi fuori moda. E allora i fari possono pure lanciare segnali e illuminare la rotta dei naviganti ma quasi nessuno se ne avvede.

Che tristezza. Chinare il capo e attendere con speranza è un esercizio di tortura.

Finché la barca và lasciala andare…Però quando affonda non perdere tempo a piangere, accusare, prestare soccorso. Si salva solo chi può.

Attenti al ladro

A quello che è in noi. Pronto all’esercizio della birbonata con destrezza. Avvezzo a sfoderare la furbizia come una virtù. E, implacabilmente, aladro vantarsi della scorciatoia. E’ un mostriciattolo difficile da tenere a bada nel circolo italico degli amici degli amici, quelli allergici alle regole, alle code, alle procedure. A quello che è in noi. Pronto a infischiarsene dei buoni limiti. Capace di improvvisarsi sapiente in tutto. Esperto patentato in fregature. E decisamente incline a non conoscere la vergogna. E’ un tarlo vorace che banchetta ovunque, sbracato alla tavola come un signorotto di cattivi costumi. Attenti al ladro che è in noi. Prima o poi presenta pure il conto, come se dovesse riscuotere il compenso per tutti i furti andati a segno. Con la faccia sicura e pure un po’ severa del professionista onesto, competente, laborioso. Bisogna ammanettarlo perché non commetta altri guai, perché non faccia altri danni, perché ci lasci ritrovare la misura del cervello, senza smanie di scaltrezza.

La crisi ammoscia

 

la crisi ammosciaNon c’è dubbio, la crisi ha ammosciato gli animi. Questione di prospettive sbriciolate, sogni infranti, speranze perdute, dicono. Il disastro ha rubato il futuro ai giovani, aggiungono.

 

Voci alle quali è difficile dare torto. E’ roba che si palpa, infesta l’aria, smorza i colori. Però il dramma è amplificato dalle distorsioni ammucchiate in decenni di isteria o di intontimento collettivo. Ci eravamo abituati a orizzonti sconsiderati senza neanche più ragionare su ciò che avevamo a un palmo dal naso. Come sentinelle in un forte inutile difendevamo ciò che avrebbe dovuto farci orrore o, al massimo della bontà, pena. Ci bastavano una manciata di illusioni sciocche e un egoismo smisurato per brindare al benessere, accidenti.

 

Ma quale benessere, mi chiedo. E a quale costo, soprattutto.

 

Svuotate le tasche ci resta l’amarezza degli errori, il rimpianto del tempo non goduto, il rimorso dello spreco, il dolore dei rapporti umani frantumati. Evviva. I bei tempi in cui non eravamo in crisi ci hanno portato a uno strazio indescrivibile. E’ tutto più o meno confuso e sfilacciato, nell’insofferenza, nell’insoddisfazione, nella rabbia.

 

Ma io credevo che la batosta ci avrebbe fatto ritrovare la voglia di amore, di amicizia, di verità, di semplicità. Pure di onestà, per essere proprio franca. Invece la tristezza spalmata sulle facce è quella delle possibilità scemate, delle rinunce che bruciano neanche fossero lutti. Ecco, pare davvero che la “felicità” sia appesa al chiodo con l’agiatezza.

 

Ovvio che non penso alla fame e alla disperazione. Quelle giustificano il crollo pure degli spiriti più illuminati, intendiamoci. Alludo a quelli che comunque possono vivere. A quelli cui pesa come un macigno “accontentarsi”, non spararsi due vacanze esotiche all’anno, non bazzicare ristoranti di grido tutti i fine-settimana, non riempire il guardaroba di griffes.

 

Questa è la delusione peggiore. Fa davvero calare le tenebre. Neanche riesco più ad augurarmi una rivoluzione civile e culturale, non vedo masse di cuori lindi e appassionati, cittadini zelanti e coraggiosi, uomini e donne di virtù e carattere che possano accendere la miccia. Non riusciamo a mettere in off la funzione “avere” e a riportare la manopola su quella “essere”. Sensibilità fuori gioco, insomma.

 

Non vorrei arrendermi, credetemi. Il guaio è che intorno se non mi prendono per un marziano fanno spallucce. In entrambi i casi non è un conforto. Ho paura che se piovessero banconote saremmo tutti nuovamente sereni, infischiandocene allegramente del senso o della direzione della nostra vita e di tutto quello che dovremmo rispettare, inseguire, coccolare.  Svegliatemi e svelatemi che è solo un incubo, per favore.

Il caso dei libri scomparsi

In bilico tra più generi letterari, quello di Ian Sansom è un libro carico di dolcezza, di ironia, di suspence, di delirio, di genialità.

Una trama intrigante, una narrazione un po’ raffinata un po’ audace, un intreccio di bizzarre umanità rendono la lettura davvero piacevole.

Isrlael Armstrong da Londra arriva a Tundrum, piccola cittadina dell’Irlanda del nord, come bibliotecario. Sembra un sogno che si avvera: finalmente l’incarico che aspettava, il lavoro che era determinato a intraprendere, la possibilità di affermare la sua colta professionalità. Ma Israel Armstrong scopre subito non ci sono né la biblioteca né i libri, che non è facile la relazione con il luogo e i suoi abitanti, che il suo alloggio è la stia dei polli di una fattoria, che la fidanzata lasciata a Londra si è subito dimenticata di lui.

La nuova e surreale dimensione lo terrà “prigioniero” per una lunga avventura: una commedia di equivoci, stranezze, colpi di scena e ordinarie emergenze. Una sorta di bazar di strade, facce, parole, eventualità dove il grasso, goffo, vegetariano Israel Armstrong si ritrova ad annusare, cercare, soffrire, lottare…

Ambientazione suggestiva e profili formidabili in un racconto intenso sulle eccentriche sfumature degli uomini e della vita.

La caccia ai 150.000 volumi scomparsi è solo l’inizio!

Investigatore contro la sua volontà, Israel Armstrong inaugura con questa partenza esilarante le storie del bibliobus di Tundrum: indubbiamente un ottimo invito a proseguire per assaporare gli sviluppi, immagino sempre più sbalorditivi, cuciti da Ian Sansom sulla pelle del bibliotecario più insolito del mondo.

Ian Sansom, Il caso dei libri scomparsi, Tea edizioni.

 

Sotto il temporale: le fiabe della realtà

Quello dei bambini di fronte alla separazione dei genitori è tema attualissimo, spesso dibattuto in termini di trauma psicologico, talvolta attraversato come terra di egoismo o immaturità degli adulti e di disperato smarrimento dei figli, qualche volta evocato come occasione di intenso percorso emotivo tra le pieghe dei nonni protettivi, le note non convenzionali delle famiglie “allargate”, l’esperienza di crescita offerta da una realtà che si trasforma.

La verità è complessa. Non esiste rimedio infallibile che eviti il dolore, l’affanno, lo sbandamento, la tristezza. Ma è necessaria la consapevolezza quanto la sensibilità e la determinazione a comprendere e attivare i meccanismi di elaborazione delle difficoltà. Solo così, serenamente, è possibile aiutare i bambini a scacciare la paura, l’insicurezza, la malinconia e a far fiorire energie e risorse.

L’amore è essenziale, ovviamente! E di amore è colmo l’appassionante viaggio di Manuela Mareso nel labirinto di approccio e poi di cammino nell’universo della sua bambina nella tempesta familiare.

Manuela Mareso usa la fiaba come una bacchetta magica. E non vi è nulla di campato in aria, non è una leggerezza frettolosa e semplicistica.

La prima cosa che i bambini si trovano con fatica a dover accettare è che non vi è capriccio o strategia di “seduzione infantile” che riporti nello stesso nido mamma e papà. Allora è ingiusto, e peraltro credo impossibile, mentire, costruire gabbie dorate, trascinare i figli nel balletto osceno delle colpe, pretendere un’improvvisa responsabilità da adulti in erba, ed è invece essenziale cercare la via di accesso alla loro dimensione, sintonizzarsi sulla loro lunghezza d’onda, adottare la straordinaria filosofia dell’autenticità.

La fiaba di Manuela Mareso non è solo conforto ma piccola e chiara lezione di umanità. La più grande saggezza si elargisce con un sorriso denso di speranza e conforto ma anche, o forse soprattutto, di apertura alle opportunità. Ecco, il messaggio delle fiabe può racchiudere la ricchezza delle diversità, la capacità di tollerare la sofferenza o di ricavarne lo stimolo al coraggio e al sogno, la possibilità di esplorare l’esistenza in tutte le sue sfaccettature.

Con fantasia, impegno, affetto Manuela Mareso trova la chiave per dipanare la matassa e trasmettere alla  sua piccola segnali di forza, di fiducia, di entusiasmo. Perché il viaggio intrapreso non vuole e non deve negare alla bimba il malessere, gli ostacoli e le ansie, può invece raccoglierli, accarezzarli e condurli nella inevitabile evenienza dell’esistenza e nel bagaglio di sensibilità e di conoscenza che potrà svelarle altre luci e altro calore.

Per la sua bambina, per tutti i bambini, questa è una porta aperta: proprio dalle pene si può uscire “migliori”…

In un panorama editoriale che non mi pare veda trionfare il genere, l’opera di Manuela Mareso appare ancora più audace e intensa. Il libro si legge in un baleno ma resta impresso nel cuore: ottimo stimolo per genitori separati in angoscia da crisi dei loro piccoli, gradevolissimo momento di riflessione gioiosa per tutti. A me ha catturato già dal sottotitolo “fiabe-ombrello per famiglie in trasformazione”.

“La fiaba spezza il silenzio” osserva genialmente e autorevolmente Maria Rita Parsi nella prefazione. E quelle di Manuela Mareso hanno un tratto notevole: veloci, tenere, palpabili, “quotidiane” come l’emergenza pratica della situazione impone. Perfettamente calzanti, stringenti, incisive insomma. Quasi un “manuale” in pillole o una bussola per orientarsi e affrontare le inquietudini dei figli dopo lo strappo familiare.

Felice il tocco di Elena Tammaro con le splendide illustrazioni delle fiabe.

Manuela Mareso, Sotto il temporale, Edizioni Il Gruppo Abele, I BULBI dei piccoli.

Giobbe Covatta: Corsi e ricorsi ma non arrivai

Il capolavoro di un genio.

Edito da Arnoldo Mondatori nel 2005 è ancora nuovissimo e continuerà ad esserlo a lungo, credo…Non riesco ad “archiviarlo”, a riporlo sullo scaffale dei libri di un tempo che non è più. Resta sul comodino, incalzante e scottante, con il largo sorriso di Giobbe che non riesce a lenire il disagio di un percorso fatale.

Giobbe Covatta, un po’ giullare, un po’ predicatore, un po’ sapiente, ha giocato e lavorato su una vasta rassegna stampa con spirito caldo e tagliente. E’ un libro di ritagli, un puzzle di giornali, di battute, di connessioni. Una rassegna stampa paradossale, ovviamente. L’attualità e il costume visitati in chiave comica con l’arguzia dell’osservatore acuto, ecco. Non fa sconti, Giobbe Covatta. Ma usa l’arma dell’humour. Forse con il disincanto di chi ha colto nella realtà la sciagurata natura dell’uomo e degli eventi.

Una parodia eccellente della storia e della vita che fa ridere fino alle lacrime. Perché sono proprio le lacrime finali a rivelare che siamo proprio incatenati al destino delle degenerazioni…La Donna Habilis, l’Homo Erectus detto anche l’Homo Rocco Siffredius sono croce e delizia di questo viaggio strabiliante a traguardo fuori orizzonte.

Giobbe Covatta riscrive la Storia mescolando passato e presente: tutti i corsi e i ricorsi che svelano la grande beffa. Dietro la satira sociale e politica, l’umorismo con il quale sopravvivere, la coscienza di una quasi inevitabile rassegnazione c’è tutto il materiale per ritrovare lo spazio per riflettere. Lo sfoglio dal 2005 e forse è troppo…Questa disgrazia della storia dalla quale non impariamo e non ci separiamo è una catena da spezzare!

Testate, immagini, commenti: un’opera con la quale potrei divertirmi all’infinito se non mi procurasse quel groppo in gola…Eppure la consiglio, vivamente, a tutti. Potrebbe uscire oggi, sei anni dopo, uguale.

Solo un’avvertenza: procura grave turbamento, non solo alle ganasce.

 

Ci vorrebbe un ricco “alternativo”

Ci vorrebbe un ricco saggio. O filantropo. O audacemente estroso. Un buontempone in vena di scuotere i tromboni dell’agiatezza. Un danaroso mortalmente annoiato dal cuore patinato del lusso. O terribilmente avvilito dalla solitudine del potere delle banconote. Uno che si metta in testa di passare alla storia per qualche eroica e originale impresa.

Insomma un ricco che se ne infischi del patrimonio e delle entrate e goda a pagare imposte, a elargire ai poveri, a destinare risorse per onorevoli cause, a risanare i conti in rosso della comunità.

Un ricco che insieme ai sorrisi dispensi onestà, umanità, opportunità.

Un ricco che restituisca ottimismo e speranza. Non allettando con chissà quali orizzonti di bellezza e di vacua celebrità ma dimostrando quanto la vita sia un valore ben più alto e stupefacente di qualsiasi montagna di sfarzi.

Un ricco che abbia voglia di essere ed esserci con il tasca il necessario. Senza più le impellenze di portafogli gonfi per la sciocca gloria di infelici fasti materiali.

Un ricco che abbia avuto e provato tutto fino a ritrovarsi con il desiderio intenso di emozioni semplici, di libertà, di verità, di amore, di serenità.

Perché un ricco vive l’ansia della borsa, il sospetto di essere circondato da troppi interessi travestiti da affetti, l’angoscia delle aspettative, il timore di essere derubato o tradito o surclassato. Non può frequentare tutti, deve sempre laccarsi incipriarsi tirarsi a lucido griffarsi, girovagare con l’autista, la scorta, la corte dei finti miracoli. Pararsi il lato B. Sopportare le manie soporifere di qualche salotto buono. Giocare a golf anche se preferirebbe il calcio da strada. Scegliere il mare d’elite anche se preferirebbe la pacchia genuina di Rimini. Mangiare ostriche bagnate con champagne invece di appagare la gola con una carbonara da libidine.

Ricordate la tristezza infinita di quelle guardinghe e brulle esistenze alla Paperon de Paperoni? E dell’eterno divorante conflitto con Rockerduck?

Avrà pure una serie di vantaggi e di delizie, direte voi. Però…La nausea da eccesso dovrà pur esistere no? E anche un senso di dignità e di rigore magari! Oppure la voglia di mescolarsi alla gente, di sentire la fatica, di gioire per una piccola conquista, di divertirsi senza l’aiuto di escort, coca, yacht, dimore principesche e altre amenità…O un banalissimo senso della misura. O l’ennesimo scherzo del tedio che sprona a sempre nuove avventure.

Insomma ci sarà un ricco che vuole sovvertire le regole ferree della distribuzione di affanni! Uno che voglia prendere a calci la casta dall’interno per insofferenza, per improvviso rinsavimento, per ostinata ricerca di ebbrezze mai raggiunte. Uno che si consegni alla collettività come cavaliere smacchiato e senza paura…

Un ricco che sappia finalmente scioccare tutti, ecco.

Magari è solo una febbrile brama della mia fantasia ma lancio la sfida e l’appello: se esisti, ricco con tutti i requisiti qui riassunti, batti un colpo!

 

Senza Veronica Lario

Ai tempi dei pubblici sfoghi di Veronica Lario forse una domanda, tra le tante, ce la siamo posta tutti. Ovvero se ci fosse arrivata per lenta esasperazione, nella classica ipotesi della goccia che fa traboccare il vaso, o per improvvisa scoperta di una realtà travolgente, nell’eventualità insomma di una repentina svolta di personalità del marito.

E comunque probabilmente abbiamo sospettato dovesse urlare allo scandalo perché in altri, meno eclatanti e più private vie, avrebbe dovuto soccombere alla forza del potere. Sarebbe stata zittita, liquidata malamente o addirittura messa alla berlina con qualche ben studiato rovesciamento di frittata.

Ha portato in piazza i panni perchè magari non c’era miglior difesa dell’attacco, ecco.

Da quando è stata scoperchiata, di bunga bunga a bollire in pentola ne è uscito parecchio in effetti. E questo le ha reso in qualche modo l’onore della verità. Continueremo a non sapere se ha sopportato, per amore, convenienza o speranza, oppure se si è ribellata appena ha visto ferita la dignità sua e della famiglia. E non sapremo forse mai se è stata mossa davvero da una sorta di responsabilità sociale. Però non possiamo negare che pure scettici e detrattori abbiano dovuto fare i conti con tutto quello che le cronache poi hanno rivelato.

Con ciò immagino sia rimasto tutto il disagio, profondo, di Veronica sposa e madre e dei loro figli. Perché la vicenda, comunque la si voglia vivere a livello politico e collettivo, ha un piano umano decisamente intenso e inquietante.

Neanche il machismo o un modernissimo pensiero di morale alleggerita fanno convivere facilmente con la storia di un uomo, di un padre, di un nonno avvezzo al piacere allargato e molto disinibito. Accidenti, ci sono di mezzo la decenza, il rispetto, il buon gusto, i sentimenti, i doveri e molto altro!

D’altra parte penso anche a lui, a Silvio Berlusconi. Non al Premier ma all’uomo. Perché non riesco a credere abbia l’affetto dei servitori e delle giovani e avvenenti arriviste o illuse o libertine. Perché non riesco a credere non abbia, se non rimorsi, rimpianti per non aver goduto abbastanza di quella straordinaria emozione che è il festino familiare…

Non so se l’ebbrezza di certe altezze può sconvolgere tutte le dimensioni emotive e culturali ma so che la paura di cadere non dovrebbe abbandonarci mai: è una regola di saggezza e di umiltà alla quale non bisognerebbe trasgredire.

Adesso forse è troppo tardi. Il leone deve ruggire fino all’ultimo respiro, non può trasformarsi in un micione: la giungla intera consumerebbe l’amara vendetta.

Eppure…mi piacerebbe sapere quale pagina avrebbe scritto Berlusconi senza la beffa del tranello più antico del mondo…

 

Non basta l’erba di Pontida

La Lega abbaia ma non morde.

D’altra parte i partiti hanno le batterie scariche e la Lega non si sottrae alla decadenza generale: sono più rappresentativi i movimenti, le associazioni, le istanze della rete, la voce della piazza.

Discutere di trasloco dei Ministeri è un po’ come perdere la testa per decidere dove posizionare il salotto o la cucina prima di aver costruito la casa.

Sembra una di quelle manovre di distrazione con le quali il nostro Paese ha una certa dimestichezza purtroppo. Ma arrampicarsi sugli specchi oggi è più che mai stucchevole. Non riesco a comprendere cosa ne pensi davvero il “popolo della Lega”, credo però che bisogna sottovalutarlo molto per dare credito all’ipotesi che non veda l’ora di avere qualche pezzo di istituzione romana in casa. I bisogni diffusi sono ben altri, al nord come al sud, questo è troppo evidente per essere messo in discussione. Temo dunque che lo scollamento della politica dalla realtà abbia ormai raggiunto livelli irrecuperabili.

Qualche sostenitore intervistato ha dichiarato che Berlusconi è il male minore, non c’è alternativa, la Lega è costretta all’alleanza con il Pdl. Non è una meravigliosa notizia per la sinistra. Ma non lo è neanche per il nostro Premier, minestra mangiata per non saltare dalla finestra.

Accidenti, Roma è ladrona ma il potere è un’attrazione troppo ghiotta per muovere la fierezza e la dignità delle idee e dei valori. La Lega ingoia il rospo, ancora.

Ma ho la sensazione che i leghisti non subiscano più il fascino delle promesse, dei cori, delle salamelle e dei proclami celoduristi di secessione, federalismo e affini.

Tutti i settori economici sono in crisi e il nord sa benissimo quanto vacilla il benessere. Non c’è più forza, non c’è più ricchezza. E c’è un’infiltrazione criminale e affaristica che ha succhiato energie, risorse e ordine. uQuesta è la verità. E la Lega è qui da troppi anni per non averne esatta cognizione…

Il tira e molla tra schieramenti, leader e fazioni sembra proprio un gioco cinico sulla nostra pelle. Forse devono coprire, spartirsi ancora qualcosa, tamponare, rinviare, trovare escamotage. Un Paese intero urla l’urgenza di onestà e volontà di risolvere i problemi che soffocano il presente e il futuro e a destra e a manca regna una spaventosa inadeguatezza.

Mi auguro che non arrivi un tempo così buio da travolgere tutto e tutti. Eppure potrebbe anche essere l’unica soluzione…

 

Smettetela di sputarci/vi addosso

?La lezione referendaria non è bastata a tutti. Accidenti, quanta arrogante cocciutaggine!

Non tutti gli italiani hanno dimostrato di rispettare il referendum quale essenziale istituto di democrazia diretta.

I sostenitori del si non avevano come controparte quelli del no ma gli astensionisti che, con sprezzo e superbia non hanno neanche ritenuto di doversi adoperare con il voto per difendere le loro posizioni. Credevano non fosse necessario neanche scomodarsi a compiere il tragitto fino al seggio elettorale, pensavano che la vittoria sarebbe derivata dal numero irrisorio di partecipanti insomma. Erano convinti fossimo tutti rassegnati, pigri, disinteressati o sprovveduti probabilmente.

Questo atteggiamento dimostra chiaramente scarsissima considerazione del popolo, delle idee, dell’ordinamento. E, paradossalmente, pessima capacità di tenersi stretto il potere delle decisioni…

Culturalmente siamo ai minimi storici. E il costume riflette una sciatteria che considero irritante e pericolosa. Politici, giornalisti, opinionisti hanno manifestato prima e dopo il referendum la loro noncuranza o la loro avversione per l’occasione democratica e civile. Sono signori che esprimono poco riguardo nei confronti del popolo sovrano e non si preoccupano neanche del giudizio che da ciò è maturato o maturerà sul loro conto.

Mi rivolgo a loro perché smettano di sputarci addosso la loro strafottente boria. E perché ricordino che la batosta del quorum (e del risultato) è la prova clamorosamente lampante della loro insufficiente intelligenza politica. Perché la politica ha prodotto ciò che il popolo ha bocciato. Perché la politica non ha intuito che il popolo avrebbe saputo reagire. Perché la politica non prende sul serio neanche il bisogno di “fingere” le buone maniere.

Ecco, la politica non deve e non può permettersi questa deficienza grossolana.

Tutto sommato lor signori hanno sputacchiato pure su stessi. Si sono scavati la fossa. Non c’è destra e non c’è sinistra, l’avrete capito. Di questa inadeguatezza è responsabile personalmente chiunque non abbia onorato questo appuntamento con le urne. Tutti quelli che non l’hanno voluto e sostenuto. Tutti quelli che hanno cercato di affossarlo o oscurarlo. Tutti quelli che ancora oggi fanno spallucce.

Per la pubblica decenza varrebbe almeno un mea culpa. Tardivo e inconcludente, d’accordo. Ma sempre meglio del ghigno perpetuo.

Adesso se qualcuno vuole sfilarsi, assumersi la responsabilità di scelte forti, compiere una svolta di coscienza e di ideali non può più perdere tempo. Se non salta subito sul treno del popolo resta a piedi…