Gli investimenti nel 2008 sono stati di 44 milioni euro da parte della Regione Piemonte e 49 milioni euro da parte del Comune per 4,4 milioni di abitanti in Piemonte e per 2,2 milioni abitanti per l’area metropolitana. Distribuiti (arrotondando sulle cifre) circa così 13.518.000 al cinema, 29.508.000 al teatro e alla lirica, 10.482.000 alla musica, 22.000.000 ai musei e alle mostre, 11.000.000 a eventi, convegni, seminari, e attività culturali vari. Investimenti molto maggiori in proporzione a quelli riportati da Helen Thorington che ha citato i dati che the Guardian riportava sull’Arts Council England che nel 2007 finanziava 417 milioni di pound (855 milioni di dollari) per una popolazione di 61 milioni
Questi investimenti nei Musei e nelle Fondazioni d’arte contemporanea, in fiere come Artissima, gli eventi di Torino World Design Capital, la Fiera del Libro, la Triennale d’arte contemporanea, il Cineporto e il recente Museo d’Arte Orientale (che appena aperto dovrà già chiudere alcuni giorni della settimana perché non ci sono soldi per la guardiania) benché abbiano incoronato Torino come vittoriosa nella sfida al rinnovamento, raggiungendo lo scopo di affrancare la città dalla sua caratterizzazione di centro industriale metalmeccanico per fondarne lo sviluppo economico su basi più pluralistiche, siano stati ingenti, non si sono radicati in profondità nel tessuto economico locale. E oggi rischiano di saltare per sempre.
Tag: investimenti
Il Venture Capital tira nonostante la crisi
Nonostante la crisi finanziaria globale, negli Stati Uniti gli investimenti in “venture capital” – denaro destinato a finanziare settori innovativi a rischio ma ad elevato potenziale di sviluppo – sono scesi solo del 4% rispetto al 2007. Ci sono buone ragioni per credere che, una volta passata la fase recessiva più acuta, proprio da qui ripartirà l’economia mondiale: puntando soprattutto sul nuovo. E’ forse l’esito più augurabile della crisi.
Anche la Cina attrae capitali a rischio. Secondo i dati della Venture Source, una sezione di Dow Jones, solo nella prima metà del 2008 ben 47 venture capital si sono stabilite in Cina creando 63 fondi. Queste compagnie hanno portato su suolo cinese capitali per più di 5 miliardi di dollari, registrando uno strepitoso aumento del +85% rispetto allo stesso periodo del 2007, e hanno investito più di 2 miliardi di dollari in 275 nuove imprese, un aumento del 92.07% rispetto al primo semestre 2007.
Ciò che cambia è la destinazione degli investimenti: i settori in cui si investe, in Cina, non sono tutti innovativi.Forbes ha identificato undici settori che traineranno l’economia mondiale fuori dalla crisi e che attirano già venture capital. Si parla di clima ma non solo. Su che cosa vale la pena puntare, dunque?
Cartella clinica informatizzata
Via blog Panorama
Abbattere le liste di attesa e fornire metodologie di telemedicina e sanità elettronica per arrivare, entro un anno, alla cartella clinica informatizzata. L’annuncio è del sottosegretario alla Sanità, Ferruccio Fazio, e conferma che la sanità italiana sta compiendo passi importanti verso la digitalizzazione dei propri servizi. L’obiettivo dichiarato è quello di realizzare il Fascicolo sanitario elettronico del cittadino, come previsto dal Tavolo di lavoro permanente per la sanità elettronica (Tse) avviato nel 2005. “Stiamo definendoi contenuti, si sta già tracciando il percorso per la definizione di alcune componenti del Fascicolo, come la scheda sanitaria individuale ed il referto digitale”, ha dichiarato Paola Tarquini, dell’Ufficio studi e progetti per l’innovazione digitale del ministero per le Riforme e l’Innovazione in un convegno organizzato da Ibm, Sap Italia e Medmatica, l’Expo forum sulla sanità elettronica.
Nove regioni del sud sono coinvolte in un progetto il cui obiettivo è quello di collegare le informazioni afferenti al medico di base, comprese quelle provenienti dalle strutture ospedaliere e di laboratorio. Il programma ha ricevuto finanziamenti intorno ai 100 milioni di euro, di cui quasi il 30 per cento dalle Regioni che devono attuare i progetti. I primi prototipi di rete della Puglia, della Sardegna e della Basilicata sono già stati presentati. Per raccordare le iniziative di sanità elettronica con quanto già realizzato nelle regioni del Nord si sta invece mettendo a punto un accordo per un piano di lavoro comune, con il coinvolgimento di 10 regioni (Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Abruzzo, Molise, Sardegna), per l’interoperabilità dei sistemi regionali di fascicolo sanitario elettronico.
Gli investimenti italiani in tecnologia sanitaria, un settore che ha determinato nel mondo una spesa pari a 187 miliardi di euro, sono però ancora inferiori a quelli di altri paesi europei.
Capitani coraggiosi low tech
Luca Tremolada sul Sole 24 Ore
Come si misura l’innovazione? Formuliamo meglio la domanda: si misura la capacità creativa di un Paese? La risposta non è banale: finora non esiste un numero, un indice che dir si voglia capace in modo univoco di spiegare perché l’Irlanda è diventata in pochissimi anni una fucina di idee. O perché le eccellenze continuano ad attecchire a Stanford (Usa) nonostante gli ingenti investimenti in Dubai o nelle università cinesi. Insomma, perché finora nessuna formula statistica è stata capace di fotografare in modo univoco la crescita di innovazione di un Paese?
La colpa naturalmente non è del dato. Il numero di brevetti, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, le tasse universitarie, il numero di laureati, la vocazione tecnologica delle industrie e delle imprese nazionali possono essere sintetizzati in coefficienti. Al dato statistico però spesso ne va aggiunto uno più qualitativo che descrive, per esempio, i vincoli della burocrazia per aprire una impresa, l’atteggiamento dello Stato verso chi fa impresa, l’attenzione del pubblico verso i nuovi prodotti. Dall’incrocio di queste informazioni, si può arrivare solo a intuire perché un Paese innovi meno di altri. Ma cosa ben diversa è capire per quale motivo fuori dal Mit di Boston all’ora di colazione gli studenti passino il loro tempo fantasticando di quando diventeranno imprenditori. Mentre, per esempio in Italia, la chiacchiera verte più spesso sull’agognata assunzione in un aziendone capace di garantire il minimo “sindacale” in termini di prestigio e gratificazione professionale.
Risulta altrettando difficile, leggendo le statistiche, capire perché negli Stati Uniti aver fallito con la propria impresa non è una notizia cattiva in sé e neppure qualche cosa di cui vergognarsi per il resto dei propri giorni. Addirittura nella Silicon Valley, la storica culla di imprenditorialità hi-tech, per gli uffici del personale un fallimento è un indicatore positivo perché mostra la propensione a credere nelle proprie capacità del candidato. Per spiegare queste diverse categorie del pensiero occorre richiamarsi a fattori culturali stratificati nel tempo, a influenze che danno forma all’immaginario collettivo di un Paese. Alla percezione che abbiamo di noi e della nostra capacità di inventare nuovi prodotti e servizi. Proprio in questa prospettiva è interessante il rapporto Gem (Global Entrepreneurship Monitor) curato da EntER, Centro di ricerca della Bocconi.
Dal 1999 questo progetto contribuisce al dibattito sulla misurazione dell’innovazione, partendo dall’imprenditore, o meglio dalla percezione che ha di sé e del proprio Paese chi intraprende questa “carriera”. In sostanza, il rapporto coordinato per l’Italia dall’Università Bocconi studia le motivazioni che ci spingono a rischiare per aprire una nuova attività, attraverso il Tea (total early-stage activity o attività early-stage/iniziale totale), un indicatore che misura la percentuale di adulti (di età 18-64 anni) che hanno dato vita a nuove attività.
Dallo studio emerge un quadro che in parte conosciamo bene. Siamo, o meglio ci percepiamo, creativi, capaci di generare business e di presentare sul mercato nuovi prodotti (si vedano la tabelle qui a fianco, ndr). Per quanto riguarda l’Italia, nel 2007 il Tea è del 5%, ovvero cinque persone su cento hanno dato vita alla creazione di un nuovo business. Il dato ci pone poco al di sotto della media Europea (5,9%).
Fin qui tutto positivo e, tra alti e bassi, anche il confronto con gli altri Paesi ci pone poco sotto la media. Purtoppo, i segnali diventano più foschi se si ragiona in termini tecnologici.
I dati mostrano che in Italia, a differenza di altri Paesi, le nuove iniziative imprenditoriali hanno un basso contenuto tecnologico. I prodotti sono low tech. Imputato principale, secondo lo studio, la difficoltà di accesso alle risorse finanziarie. Da ciò discende anche la bassa aspettativa di esportazione che hanno i nostri nuovi imprenditori sui loro prodotti. «Tuttavia – precisa Guido Corbetta, direttore di EntER – è bene tenere presente la vocazione poco manifatturiera della nostra industria. Più interessante è il fatto che i nosti imprenditori si sentono più inventori, più creativi. Sicuramente meno tecnologici e innovatori».