Per parafrasare il ragionier Fantozzi si potrebbe usare la storica frase: “La corazzata potemkin è una cagata pazzesca!”. Da anni dobbiamo sorbirci dai soliti noti del sistema torino un effluvio enorme di retorica per la Biennale Democrazia che viene organizzata e promossa con soldi pubblici e enorme battage di comunicazione dalla Torino radical chic di potere.
Qualcuno la pensa in maniera analoga più che altro perchè non apprezza lo statalismo di regime
Come annunciato urbi et orbi in conferenza stampa e propagandato con una marea di pubblicità su autobus e tabelloni, Biennale Democrazia è giunta alla sua terza edizione. In realtà la Biennale va avanti senza soluzione di continuità con seminari e varie iniziative a ciclo continuo, ma ogni due anni si svolge a Torino il momento pubblico di massima venerazione dell’ideale democratico: proprio come i fedeli di una religione si radunano in occasione dell’ostensione di una reliquia sacra o di una festa, coloro che praticano il culto dello stato si ritrovano per alcuni giorni di dibattiti e attività in cui danno nuovo alimento alla propria fede, grazie ai sermoni di alcuni dei predicatori più apprezzati. Quest’anno la new entry a furor di popolo è lady retorica Laura Boldrini, ma al di là di qualche sparuto cane sciolto ci sono tutti i principali nomi del pantheon statalista.
Per nostra fortuna, l’invasione avviene solo ogni due anni. Già, perché mettetevi nei panni di noi (e)inauditi, che quel culto non lo pratichiamo, e anzi ce ne sentiamo minacciati: quando arriva l’orda degli statofili, il nostro stato d’animo è quello di un tifoso del Toro che passi da Piazza San Carlo a Torino la sera che la Juve vince la Champions; di un vegetariano che si ritrovi invitato suo malgrado a una braciolata; di un pacifista costretto a sorbirsi una parata militare nazionalista; di uno contrario all’aborto circondato da scatole di Ru486 pronte all’uso.
Del resto, questa nostra emarginazione è coerente con l’ideale che viene celebrato: quella democrazia dalla quale risulta assente ogni traccia di libertà, in cui uno vale uno, la maggioranza vince, e chi resta in minoranza tanti saluti. Ormai ci siamo abituati: appena una decina di giorni fa è stata la volta della giornata dell’unità nazionale, della costituzione, dell’inno e della bandiera, che per chi riufiuta il nazionalismo e pensa che la nostra costituzione sia tutto fuorché “la più bella del mondo” è stato un affronto bello e buono. Per cui non è che vedere una sfilza di riti pagani di una religione che non ci appartiene ci colpisca più di tanto: certo, brucia che quel credo che sta per celebrare la sua settimana santa di fatto stia lavorando per la distruzione del nostro credo, ma ci abbiamo fatto il callo. Con ogni probabilità, non si accorgono neppure del male che ci stanno infliggendo: chi di dovere li perdoni, perché davvero “non sanno quello che fanno”.
In verità, la bestemmia nei nostri confronti è aggravata dal fatto che tutto ciò avviene a spese anche nostre: poiché la Biennale vive grazie a (molti) soldi del contribuente (di riffa o di raffa quasi tutti gli sponsor hanno uno stretto legame con la politica, quando non sono proprio enti pubblici), al giubileo laico sono costretti a contribuire contro la loro volontà anche tutti i produttori di ricchezza che credono in una religione diversa. Ma in fondo anche questa è democrazia nel suo inverarsi più coerente.
Anche il fatto che il parterre sia così evidentemente di parte, poi, non stupisce: delle decine e decine di relatori e di incontri, ce n’è uno solo in cui i non-statalisti si sentiranno davvero a casa, ossia l’appuntamento con la bravissima Serena Sileoni. Per carità: ognuno deve essere libero di fare tutte le manifestazioni faziose che vuole (purché se le paghi). Ma ecco, non guasterebbe un minimo di rappresentanza in più al controcanto, per sentire più voci fuori dal coro della messa cantata