Riceviamo e pubblichiamo da Gennaro Adamo Cuoco e titolare di GRANIeSALAMI e HOSTeRIA
In questi giorni in cui il Covid-19 ha stravolto la vita e le abitudini di tutti noi, leggo molte riflessioni di miei colleghi ristoratori, più o meno famosi, magari stellati, o di siti specializzati, che si interrogano sul futuro della ristorazione, sulle misure di sicurezza da adottare per la riapertura, sulle distanze da garantire, sui costi che gli adeguamenti obbligatori comportano e quant’altro.
Talvolta queste considerazioni sono fatte basandosi sul breve periodo, pensando alla tenuta economica ed alla sostenibilità dell’attività con numeri così ridotti.
Alcuni pontificano su quello che succederà a lungo termine prevedendo un futuro in cui ci sarà la famosa selezione darwiniana e solo i più bravi ed oculati, quelli che avevano solide basi prima della crisi, continueranno a fare il proprio mestiere di ristoratori.
La maggior parte poi dei siti specializzati invoca il consumo di prodotti italiani per la difesa del made in Italy o, in maniera più restrittiva, della filiera corta per dare respiro ai piccoli produttori locali.
Posso sentirmi in accordo e in disaccordo con tutti.
Volevo comunicare ai miei colleghi che in questi anni molti di loro sono diventati ignari sostenitori della globalizzazione. Magari hanno proposto menù o piatti tipici per poi però comprare la carne polacca e fare un vitello tonnato o un ossobuco alla milanese. Hanno comprato i pomodori dal Marocco. Hanno usato l’olio d’oliva tunisino.
Il made in Italy, la filiera corta, la valorizzazione del territorio, la qualità della cucina, significano avere una idea di sostenibilità universale in cui i prodotti della terra debbano essere acquistati, ove reperibili, più vicino possibile al proprio ristorante.
Insomma io non voglio essere globalizzato, non posso pensare ad un mondo in cui non vi sia più nulla da scoprire, in cui tutto sia standardizzato, omologato, svilito, snaturato. Non devo immaginare una cucina slegata dalla terra e dalla natura, senza anima e del tutto “fuori stagione”. Non credo sia giusta una ristorazione di profitto che non abbia a cuore i concetti di genuinità, di bontà, di qualità.
Non sto parlando di campanilismo economico ma di inquinamento ambientale, che oltre ad essere ridotto dalla diminuzione dei trasporti intercontinentali viene diminuito solo dalla consapevolezza di noi ristoratori che potremmo fare uso di prodotti di cui conosciamo la provenienza e che ci permettono un colloquio diretto o un consiglio dall’agricoltore, dall’allevatore, dal macellaio che ce li fornisce.
Pensate quanta possa esser la merce che giornalmente si deteriora nei magazzini dei vostri fornitori. Viaggi lunghissimi e quantità elevate per ridurre i costi di trasporto sono le cause principali di tutto ciò.
La parte più bella del mio lavoro di cuoco è la sfida: la possibilità di poter pensare a piatti anche al di fuori della tradizione (come “Nuara in gir par al mund”, una sezione del menù di HOSTeRIA”) che prende idee dall’universo culinario e le realizza con risorse territoriali.
Una chiacchierata con Marco, che tre volte alla settimana mi fornisce le verdure del suo orto, i confronti, a volte anche accesi, con Roberto che mi fornisce la carne Piemontese, le chiacchierate con Giovanni e Gianluca dell’Azienza agricola Valsesia, per i salumi e la carne di suino, sono la parte più bella ed accattivante del mio lavoro. Parlando di conoscenze ed idee, 1 + 1 non fa 2, fa 3, perché lo scambio e i ragionamenti allargano le vedute, generano nuovi spunti.
Insomma, bisogna fare delle scelte, camminare da soli o tendere la mano a queste persone meravigliose, le stesse persone che in questi giorni cupi e dolorosi mi hanno teso la loro per una ripartenza meno incerta.
Alcuni mi hanno commosso, dicendomi che mi avrebbero aiutato in qualsiasi modo nella ripartenza, come io ho in alcune realtà aiutato loro, privilegiando i loro prodotti e pagandoli il giusto, senza tirargli il collo e permettendogli di non svendere il loro lavoro a grossisti senza scrupoli.
Spero con tutto il cuore che la politica, anche a livello locale prenda lezione da quanto è successo e capisca che aiutare le nostre realtà contadine e le nostre aziende agroalimentari non vuol dire essere contro gli altri o autoctoni a tutti i costi, ma a favore di condizioni lavorative meno miserevoli di alcuni Paesi che sfruttando le persone possono invadere il mercato con i loro prodotti, e pretendere da loro le stesse misure stringenti che vengono chieste ai nostri.
A volte basta poco, la partecipazione o sponsorizzazione ad un evento agricolo o ristorativo su piatti con prodotti tipici. Questo spesso manca anche a chi si professa difensore del made in Italy, l’ho constatato con dispiacere e delusione.
In ultima analisi spero che tutti capiscano l’importanza di privilegiare quei ristoratori che utilizzano in gran parte prodotti locali e/o Italiani e che si rendano finalmente conto che l’ALL YOU CAN EAT è un’aberrazione del settore ristorativo che in questi anni ha impoverito tutti.
I prezzi bassi di certi menu dovrebbero far riflettere i clienti. Hanno contribuito all’impoverimento delle realtà contadine della nostra Italia. E questo significa aver impoverito il Paese intero e il suo futuro. Occorre invertire la rotta.