La teoria del Nudge che vale un premio Nobel per l’Economia: Stefano Pigolotti intervista il prof. Novarese

Il  prof. Marco Novarese – docente di economia comportamentale dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale –  ha illustrato, in un incontro  che si è svolto a Torino  venerdì 2 febbraio, nella Sala Einaudi del centro Torino Incontra, in via Nino Costa 8, il contenuto del concetto che sta dietro la teoria della “Spinta Gentile” (in inglese Nudge Theory).  Come testimonia il premio Nobel attribuito a Thaler, l’economia si occupa anche di decisioni e percezione. Il seminario si è proposto di illustrare alcuni aspetti di questo filone, applicando le riflessioni al mondo della comunicazione e della tutela del consumatore.

Il “Nudge”, la “spinta gentile”, tra paternalismo e libertà di scelta: come stimolare determinate scelte da parte dei cittadini?

• L’economia scopre la comunicazione: il framing effect. Il modo in cui si presenta un problema può avere effetti importanti sulla percezione e le decisioni; le parole e le metafore vanno scelte con cura e possono essere usate per influenzare o convincere.
• Le scelte basate su una ragione. Sovente le persone non sanno cosa scegliere e cercano una ragione facile da trovare per decidere; poter giustificare facilmente una scelta è un modo per renderla preferibile.
• Cosa fa una buona storia. Cosa piace di un racconto? Quanta novità deve contenere? Deve essere semplice o complessa? Deve lasciare margini di libertà per il pensiero oppure no? Alcune risposte arrivano da esperimenti e riflessioni teoriche.

Stefano Pigolotti – a sua volta docente e formatore –  ha posto alcune domande al Prof.  Marco Novarese, che ha fatto da relatore all’incontro.

 

Nel pianificare il lavoro di figure operative, il direttore commerciale dovrà prevedere elementi di analisi asettici e poi individuare le spinte gentili più efficienti?

“Il management in generale può essere visto come l’arte di creare ambienti di scelta. In fondo un manager sta creando un ambiente in cui i suoi dipendenti, i suoi collaboratori, si trovano a prendere delle decisioni e in cui i clienti, i consumatori, così come i partner, decidono. Quindi assolutamente si, il nudge è fortemente legato al tema del management anche se il libro quando è stato proposto lo presenta come una questione legata alle scelte pubbliche, ma le stesse cose le vediamo applicate dal marketing o le possiamo vedere applicate nelle imprese private. Del resto una buona parte delle riflessioni sulle organizzazioni e sul comportamento organizzativo è quello di chiderci: ” come facciamo a fare in modo che le persone si comportino da agenti organizzativi e non da persone autonome?”

 

Quali sono gli effetti in ambito comportamentali: dove prendiamo queste decisioni se ci sono ancora delle nebulosità negli studi sul  “neuromarketing”? 

“In realtà le perplessità che ci sono relativamente al neuromarketing non sono tanto sui risultati, nel senso che le scoperte del neuromarketing sono vere, ma non sono così nuove rispetto a scoperte che erano state fatte sperimentalmente. Qualche anno fa era uscito un bellissimo articolo sul Corriere della Sera: “Il gelato rende felici”. Abbiamo bisogno di usare il neuromarketing per questo? Basta guardare un bambino e lo scopriamo. L’idea del neuromarketing è quella di andare a capire perché il gelato rende felici. Rende felici perché va ad attivare una certa area o un certo tipo di associazione”.

Dunque oggi siamo ancora nella fase di conferma del neuromarketing?

“Si poi non tutti la pensano così. Per me non siamo ancora arrivati così in là da scoprire il funzionamento del cervello”.

La Motivazione diventa stimolo per l’eccellenza per il pubblico affare. Si innescano disturbi esterni come la politica partitica. Bisogna tornare alla politica economica? 

Il problema è che le politiche economiche possono essere tante, possono essere diverse, e c’è relativamente poco consenso. La caratteristica del nudge è quella di proporre delle politiche anche su cose magari relativamente marginali, ma che possono essere rese effettive con poca spesa. Se io trovo la forma di stimolo giusto, non devo fare nulla di troppo complicato, faccio una cosa testata e ottengo un risultato. Poi c’è chi dice “si, ottengo un risultato, che è anche statisticamente significativo ma poco importante”. In fondo, se io voglio ridurre il consumo energetico è giusto che io metta una tassa perché così le persone lo sanno e se ne accorgono. Mettiamola così, il nudge è una forma aggiuntiva di politica economica che i governi possono utilizzare.

L’alfabetizzazione è opposta al nudge, anche a livello scientifico c’è una forte diatriba e un forte contrasto fra chi sostiene il nudge, perché il nudge in qualche maniera è qualcosa di nascosto, qualcosa di subdolo; e chi dice no, non è giusto, “lasciamo il libero arbitrio” lasciando che le persona capiscano cosa stanno facendo.

 

Nessun ordine che arriva dall’alto: solo la carota che funziona!  Il libro “Nudge” da quando è stato pubblicato negli Usa  è stato uno dei successi editoriali dell’anno, soprattutto tra i manager, ma anche uno dei pilastri della vittoria della campagna elettorale di Obama che ha usato appositamente il metodo di Thaler e Sunstein per convincere i referenti del mondo finanziario come si dovesse procedere per superare la crisi: Sunstein è stato invitato a collaborare con la Casa Bianca come supervisor  dei processi di riforma, soprattutto su energia e ambiente.

Anche se hanno conquistato il Nobel nel 2002 con Daniel Kahneman (seguace di Thaler), gli economisti comportamentali in passato non sono stati presi molto sul serio da quelli classici, abituati a basare le loro analisi sull’assunto del comportamento razionale dell «homo oeconomicus ». Per i comportamentalisti, invece, sono molti i fattori esterni, le influenze, i condizionamenti psicologici che alterano il profilo razionale delle scelte umani. Per questo è utile aiutare le scelte vantaggiose con piccoli incentivi.

Smentendo chi ha fin qui sostenuto che i mercati (e, quindi, i soggetti economici) sono perfettamente in grado di autoregolamentarsi e di trovare un punto di equilibrio, la crisi finanziaria ha improvvisamente dato grande popolarità alle tesi della scuola di Thaler e Kahneman. Quelle riprese in Nudge fanno venire qualche mal di pancia non solo a liberisti, ma anche ai guardiani dell’ideologia dei due schieramenti. La sinistra «liberal» ostenta diffidenza perché i due pensatori, centrando comunque la loro analisi sulle decisioni personali e sul modo di influenzarle, restano ancorati all’individualismo: non sposano la logica dell’intervento pubblico in economia, né sono disposti a sostenere che il benessere sociale va garantito con atti di governo vincolanti. Ma anche libertari e conservatori contrari allo statalismo sono in allarme: temono che, servendosi del «paternalismo libertario», i governi possano diventare persuasori occulti molto più insidiosi di un’amministrazione che, alla luce del sole, cerca di rafforzare la sua presa sulla società.

A tutte queste obiezioni Thaler risponde semplicemente che la filosofia del «pungolo» non è di destra né di sinistra. Una nuova versione della «terza via»? Sembra solo una battuta, ma la filosofia di Nudge non va nemmeno sottovalutata perché, così come ha nemici sia a destra che a sinistra, ha grandi sostenitori su tutti e due i fronti: uno, assolutamente entusiasta, è il leader conservatore inglese David Cameron che ha invitato i due autori a Londra per discutere le loro idee con la dirigenza «tory». Intanto un’icona progressista come Obama, che all’università di Chicago ha frequentato per anni Thaler e Sunstein (marito di un’altra collaboratrice del presidente, Samantha Power), si prepara a ricorrere a qualche pungolo (più o meno) gentile per spingere gli americani a comprare auto più piccole e «risparmiose», anche ora che il prezzo della benzina negli Usa è sceso sotto l’equivalente di mezzo euro al litro. Una spinta che, probabilmente, assumerà la forma degli incentivi all’acquisto di veicoli più efficienti e della parallela tassazione di quelli più inquinanti.

Stefano Pigolotti: “Manager contro Imprenditore”

In un gruppo di lavoro meglio avere sopra di se un manager o un imprenditore, come capo? La domanda può sembrare frivola e anche abbastanza banale, ma non è come può sembrare a prima vista:  infatti le attitudini, le competenze,  le skills  che servono per diventae un buon imprenditore o un buon manager sono estremamente diverse fra loro.

Molte possono essere apprese con l’esperienza, e in alcuni casi un imprenditore può anche essere un ottimo manager e viceversa, ma è bene ricordare che si tratta di due figure completamente diverse, con ruolo e funzioni all’interno dell’azienda completamente diverse.

Abbiamo girato la domanda al docente Stefano Pigolotti, dopo averlo incontrato durante l’intervista con il prof. Novarese dell’Università del Piemonte Orientale, quando ci aveva illustrato l’importanza nella leadership della Teoria dei Nudge” del Premio Nobel per l’Economia Thaler  

“La figura del manager all’interno di un attività imprenditoriale – spiega il prof. Stefano Pigolotti – è una scelta che va valutata on cura, specialmente quando ci rivolgiamo alle PMI italiane, dove la figura dell’imprenditore da sempre è centrale nella vita dell’azienda e ogni variazione all’equilibrio può portare diffidenza e attriti tra i dipendenti.  La diversa esperienza tra le due figure è dovuta al fatto che l’imprenditore gestisce la sua visione lavorativa eseguendola in campo imprenditoriale mentre il manager deve avere la capacità di capire la visione dell’imprenditore con le proprie conoscenze legate alla gestione vera e propria dell’azienda. La spersonalizzazione da parte di una proprietà all’interno di una azienda diventa una grande opportunità dal momento in cui entrano in gioco manager esterni che servono a dare un cambiamento di passo alle aziende dando una nuova visione alla stessa”. 

Quali sono i rischi di acquisire un leader esterno? 

“Il rischio  per i manager  esterni è legato alla possibilità di alimentare incomprensioni con chi ha vissuto finora una filosofia aziendale precisa, fatta di convenzioni non scritte. Questo può comportare attriti  e perdita di efficacia e sostenibilità. Il contrasto tra manager, imprenditore o addirittura dipendenti c’è sempre stato è continuerà ad esserci, soprattutto  quando  quando il manager sbaglia e deve trovare colpevoli o tende a tutelare le proprie scelte L’imprenditore quando commette errori paga regolarmente di propria tasca il suo sbaglio è decide di conseguire un obbiettivo con più impeto della volta precedente. Quindi l’imprenditore è più diretto e il suo potere decisionale aumenta, il manager dovendo tutelare prima la sua professionalità si limita ad avere decisioni meno dirette rispetto l’imprenditore”. 

 

Un sondaggio Eu-Osha conferma che quattro lavoratori su dieci hanno problemi in ufficio con i propri capi. Si tratta di una situazione che può degenerare in stress, e che se non è gestita in modo appropriato può degenerare. Alcuni mesi fa si è svolto il Congresso della Società europea di cardiologia  che ha visto riuniti migliaia di esperti da tutto il mondo. Si è parlato anche del ruolo dello stress nei luoghi di lavoro, e le ultime ricerche hanno confermato come l’ambiente e gli scontri relazionali giochino un ruolo chiave per l’acquirsi di patologie cardiovascolari, non per l’ultimo il rischio di infarto. A nessuna azienda conviene avere i propri dipendenti in mutua per problemi di salute. Dunque se i dirigenti dovrebbero prevenire questa problematica, non fosse altro che ha un costo sociale ed economico che nessuno oggi si può permettere

Come si possono prevenire contrasti tra le parti? 

L’imprenditore in questo casso dovrebbe osare di più nel delegare al manager i compiti che sono utili per l’azienda. Uno dei motivi per cui  un dipendente abbandona il proprio ambiente di lavoro (per stress o malattia)  è proprio il cattivo rapporto con il proprio capo. Per questo il manager deve poter agire per migliorare i rapporti con i propri sottoposti o trovare il modo  di agire con spirito costruttivo, mantenendo sempre la calma, con lo scopo di rendere l’ambiente di lavoro più propositivo e confortevole.

Saper gestire le relazioni: questa è una delle chiavi del benessere in azienda: le relazioni possono rendere estremamente difficile la permanenza sul luogo di lavoro. Sapersi relazionare significa ritrovare una chiave per il successo lavorativo, oltre che per il benessere personale. Il modo migliore per far sì che le cose accadano senza attriti, raggiungendo  obiettivi comuni: solo così le aziende funzionano.   Per ottenere risultati positivi e di conseguenza  acquisire capacità aziendali che portano a raggiungere un equilibrio di filosofia con l’azienda, le decisioni dovrebbero sempre essere dapprima concordate con il proprietario o i proprietari dell’azienda il dialogo che permette di valutare una decisione aiuta a condividere idee imprenditoriali importanti. L’unione tra responsabilità e competenze permette di assumere una leadership imprenditoriale per avere sempre più quote di mercato. Aprirsi  e dialogare poi con i dipendenti  dei problemi che stanno avendo è la chiave per  migliorare il rapporto con loro, invece di aspettare che le cose degenerino: La cosa più conveniente da fare è dedicare un po’ di tempo a settimana per ascoltare, sentire i bisogni, pur mantenendo la tua professionalità: sapersi relazionare non vuol dire essere buonisti, amiconi…  Il ruolo del dirigente richiede pazienza, empatia, carisma, capacità di ascolto e, al contempo, capacità di negoziazione. 

 

 

UNA QUESTIONE DI LEADERSHIP

I bravi manager non per forza sono anche bravi leader, e i bravi leader possono rivelarsi pessimi manager. Questo può accadere in quanto stiamo parlando di due soli diversi tra loro. Anche se possono includere caratteristiche molto simili. La necessità di guidare le capacità umane – e dunque quelle aziendali – hanno portato  Burt Nanus e Warren Bennis (vedi il libro “Leader. Anatomia della leadership. Le 4 chiavi della leadership effettiva”)  ad affermare il seguente aforisma: “i manager fanno le cose nel modo giusto; i leader fanno le cose giuste”. Sono i leader che conquistano nuovi territori inesplorati, che superano ogni ambiente competitivo utilizzando la visione a lungo termine e la strategia la cui realizzazione è affidata ai manager. Il management include la cura dei processi, della pianificazione, del bilancio, della struttura interna e dell’organico. Tutti elementi che favoriscono la continuità operativa di un’impresa: una condizione necessaria per il successo dell’organizzazione. Di conseguenza, nonostante una leadership eccellente, senza il management un’azienda si disintegrerebbe in un caos disorganizzato. Ma il management non va confuso con la leadership; non è il suo compito guidare l’organizzazione verso nuovi orizzonti.

RAGGIUNGERE IL SUCCESSO

Per raggiungere il successo  in qualsivoglia  ambito (personsale o della propria impresa) non basta “saper organizzare bene le cose”  o essere bravi  tecnici. Saper fare è sicuramente utile in molti campi ma qui si richiede di anticipare nuovi bisogni, nuovi mercati e, soprattutto, di saper stimolare gli altri, dai  dipendenti ai collaboratori, dai colleghi ai caposettore – della fondatezza  delle proprie idee, facendo di loro persone entusiaste di quanto stanno per fare. Chi collabora con noi è una risorsa importante: il bravo leader lo sa, e cera di adottare tecniche di successo per guidare gli altri, amministrare se stessi e raggiungere gli obiettivi che che si siano proposti, per se o per la propria impresa.

Nel 1990, il prof. John Kotter, docente di management ad Harvard, affermò che la leadership consiste nel saper affrontare il cambiamento e sviluppare una visione per l’organizzazione anche in periodo tumultuosi. I leader sono inoltre obbligati a comunicare questa visione all’intera azienda e a motivare il gruppo – in specialmodo i manager – in modo da realizzare i cambiamenti richiesti. In ultima analisi è la leadership che detta l’agenda e affida alle persone il potere di generare importanti cambiamenti .

Un buon leader, però, deve anche sfruttare l’incertezza sostenendo con forza la propria visione aziendale, facendo in modo che i collaboratori riferiscano loro quando le cose non vanno nel verso giusto e prendono spesso decisioni difficili su come sviluppare una visione organizzativa in grado di realizzare una visione strategica.

 

 

Università Popolare di Milano: i presupposti storici di oltre 100 anni di successi

LUniversità Popolare degli Studi di Milano festeggia ancora. Dopo aver ottenuto un provvedimento amministrativo definitivo con il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR) viene riconfermato con indiscussa ordinanza da parte dell’ultimo organo di giudizio amministrativo il Consiglio di Stato che definisce l’atto decretato all’università popolare degli studi di Milano di persistente efficacia sul valore e capacità giuridica di esercizio universitaria. L’Università Popolare di Milano, dunque, con i suoi partner UUPN le università tradizionali di Stato associate, festeggiano l’ordinanza del Consiglio di Stato come uno dei tanti successi ottenuti in oltre un secolo di storia.

La paternità storica ed il conferimento ufficiale dei presupposti storici di continuità di tutte le Università Popolari vengono attribuite dalla CNUPI Confederazione Nazionale Università Popolari Italiane, federazione in cui viene decretato il suo riconoscimento ufficiale dal MIUR, con specifico decreto del 21 maggio 1991 e successiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della repubblica Italiana. Il gruppo principale ne fa parte fin dalle sue origini con le sue virtù storiche. Dal 2017 con nuova riforma associativa di UNIEDA, il Gruppo Università Popolare degli studi di Milano, accreditata, entra a farne parte.

“Una vittoria – chiosa il direttivo – in nome di un mondo migliore di una libertà democratica basata su valori che l’università popolare degli studi di Milano porta avanti da oltre un secolo una vittoria per tutti coloro che credono che il sapere il conoscere e la scienza sono elemento fondamentale per l’uomo”
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L’Università Popolare degli Studi di Milano è un Ente fondato oltre 100 anni fa in una solenne cerimonia che vide tra i relatori tra gli altri anche il grande scrittore Gabriele D’Annunzio. 
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il giudice Tina Lagostena Bassi
Inoltre, Rettore dell’Università è stata, fino al 2008, il giudice Tina Lagostena Bassi, ben nota agli italiani come la “giudice di Forum”, programma molto popolare, ma anche nota per le sue battaglie sulla parità dei diritti delle donne
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Affiliata alla UUPN (University of United Popular Nations), svolge attività di formazione universitaria e ricerca scientifica. 
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L’università popolare degli studi di Milano con presupposti storici dal 1901 è sempre stata un’innovazione culturale accademica didattica per tutta la Lombardia e soprattutto in Milano
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Negli ultimi anni si è rivolta verso progettazioni non profit e all’aiuto di cause umanitarie sociali nel mondo del West Africa
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Da oltre un secolo, “Onore ed Eccellenza” è il motto che identifica l’Università Popolare degli Studi di Milano, fondata da Ettore Ferrari, che ne fu anche il primo rettore nell’8 aprile del 1900 per avvicinare la cultura anche ai cittadini meno abbienti.  Il discorso inaugurale dell’Università fu tenuto da Gabriele d’Annunzio nel 1901, ma parteciparono al progetto accademico, nel primo ventennio, anche diverse personalità di spicco del mondo culturale e scientifico europeo.
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L’Università Popolare degli Studi di Milano svolge un’intensa attività di ricerca scientifica in ambito sociale, economico e politico, nell’assoluta convinzione che la ricerca sia la base fondante di un benessere collettivo che deve essere sempre più improntato a principi di etica e solidarietà. In tale ottica, l’Università Popolare degli Studi di Milano è regolarmente iscritta all’Anagrafe Nazionale delle Ricerche presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Dipartimento per l’Università, l’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica e per la Ricerca Scientifica e Tecnologica – Direzione Generale per il Coordinamento e lo Sviluppo (Codice n. 58241FKL).