Walter Bonatti (1930-2011) è un personaggio unico nella storia dell’alpinismo. Lo è per le sue imprese ma soprattutto per aver vissuto due vite: quella di alpinista e quella di fotoreporter d’avventura ed esploratore. Nato a Bergamo, «il re delle Alpi» è entrato nell’immaginario collettivo grazie a mitiche scalate come la parete Nord delle Grandes Jorasses; la solitaria invernale sul Cervino, che gli varrà nel 1965 la Medaglia d’oro al Valor civile; il Grand Capucin; “l’impossibile” Dru; le spedizioni verso il Karakorum e le Ande. Non solo successi, ma anche tragedie, come quella del Pilone Centrale del Frêney, e amarezze, come accadde nella spedizione sul K2.
Il Museo Nazionale della Montagna dedica a Walter Bonatti un nuovo spazio permanente allestito all’interno del percorso di visita. Un’iniziativa che si colloca nelle azioni di valorizzazione dell’archivio di Walter Bonatti, donato dagli eredi nel 2016, che è stato oggetto di un imponente lavoro di riordino, schedatura e digitalizzazione (ora è consultabile online su CAISiDoc.cai.it, il portale del sistema documentario dei beni culturali del Club Alpino Italiano, gestito dal Museo e dalla Biblioteca Nazionale CAI).
L’Archivio Bonatti è un patrimonio documentale ricco e vasto quanto la sua esperienza: attrezzatura alpinistica, appunti e dattiloscritti, interviste e filmati, onorificenze e documenti, sessant’anni di corrispondenza e di ritagli stampa e circa 110.000 fotografie. «È impossibile esporre integralmente un tale tesoro-spiega Daniela Berta, direttrice del Museo Nazionale della Montagna-in questo nuovo spazio si è scelto quindi di proporre le immagini e gli oggetti più rappresentativi delle sue due vite straordinarie, quella dell’alpinista e quella del fotoreporter d’avventura. E di raccontare, per suggestioni, la continuità e la coerenza di queste vite, animate dalla stessa passione e consapevolezza, dalla stessa curiosità e capacità di entrare nel cuore dell’ambiente».
La spinta che in montagna aveva portato Walter Bonatti a rinunciare alle innovazioni tecniche per affidarsi invece alle attrezzature tradizionali è la stessa che nei suoi viaggi (come nei reportage realizzati per il settimanale Epoca), lo incoraggiò ad accostarsi senz’armi agli animali feroci, a condividere esperienze di vita quotidiana con le popolazioni indigene e a cercare, nei luoghi più impervi, la memoria di un mondo primordiale, osservando in se stesso il riaffiorare di istinti dimenticati.
Il percorso dell’esposizione permanente (ideata con la collaborazione del giornalista Angelo Ponta che, insieme a Roberto Mantovani, è già stato referente scientifico per il progetto di riordino dell’Archivio) mette in dialogo vecchi chiodi arrugginiti, suole di canapa, cunei di legno, il casco usato nelle scalate tra il 1961 ed il 1965, accanto a medaglie d’oro, riconoscimenti e onorificenze assegnate al campione. Tutto è raccontato attraverso immagini, lettere, ritagli di giornale, abiti, attrezzature alpinistiche e fotografiche, disegni, tracciati, documenti, filmati. Una postazione con monitor touch consente di consultare una selezione di oltre 500 documenti conservati nell’Archivio.
Emanuele Rebuffini