Prende il titolo da un monocromo giallo di Mario Schifano del 1962, «Vero Amore», la mostra sulla Pop Art Italiana ospitata dalla GAM di Torino fino al 25 febbraio. Una sessantina di opere appartenenti alla collezione del museo, che ricostruiscono l’effervescente stagione della Pop Art in versione italiana, che si sviluppa tra l’inizio degli anni Sessanta e la Biennale di Venezia del 1966, con al centro la Biennale del 1964 che assegnò il Gran Premio a Robert Rauschenberg.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta negli Usa e in Inghilterra gli artisti reagiscono al bombardamento visivo della società consumistica basata sul predominio dei media e della pubblicità, contribuendo alla nascita di un’arte intimamente connessa con le mitografie e le simbologie della cultura di massa, che vengono assorbite e rielaborate liberamente e criticamente. Attraverso la rivalutazione delle forme e dei contenuti dell’esperienza ordinaria, si afferma un nuovo modo di affrontare il mondo.
«Era stata liquidata l’introversione della stagione precedente, quella degli artisti dell’informale e dell’astratto – spiega Riccardo Passoni, curatore della mostra e vice Direttore della GAM – la Pop Art torna ad affacciarsi sul mondo e sulla fragranza del reale, cercando di decifrarlo, di assumerlo e riprodurlo nell’opera d’arte, rivoluzionando il nostro modo di percepire e comunicare le cose. I segni del moderno e le icone della quotidianità trovano piena accoglienza. Se c’è una specificità italiana, questa sta nel fatto che i nostri artisti non si limitano a una rilettura della cultura di massa e delle immagini prelevate dalla televisione e dai media ma anche di alcuni paradigmi della nostra arte antica e moderna».
In mostra troviamo opere di autori non dichiaratamente Pop come Mimmo Rotella ed Enrico Baj, che fanno parte anno parte del Nouveau Réalisme e del neo-dadaismo ma che furono precursori della Pop Art con l’assunzione di dettagli di realtà che vengono prelevati e inseriti nelle opere, come nel caso dei manifesti strappati per Rotella e degli assemblages con materie non pittoriche per Baj; quindi artisti oggetto di una vera e propria riscoperta in questi ultimi anni, protagonisti della Scuola di Piazza del Popolo come Franco Angeli (Napoleone, 1963), Cesare Tacchi con le tappezzerie estroflesse e i quadri-oggetto, o Giosetta Fioroni (La ragazza della TV, 1964. Il Moscow Museum of Art Modern le ha appena dedicato una retrospettiva e a Milano Christie’s ha battuto una sua opera a 90.200 euro).
«Le differenze con le tendenze americane sono radicali e lo dimostrano proprio le recenti esposizioni dedicate ai nostri anni Sessanta – scrive Giorgio Verzotti sul mensile Arte – Angeli, come Mario Schifano, Tano Festa o Goisetta Fioroni, proviene da una cultura alta, radicata in una storia secolare, non certo solo dal glamour dei mass-media».
Quindi Fabio Mauri, Antonio Carena, Gianfranco Baruchello, Aldo Mondino, Mario Ceroli, Tano Festa, Salvatore Scarpitta, Ugo Neposolo. E ancora la rivisitazione oggettuale della Metafisica dell’artista napoletano Lucio Del Pezzo (Ramac, 1962) che fu tra protagonisti della Biennale del ’64 (nei suoi “quadri oggetto” inseriva birilli, squadre, cerchi ed altri elementi geometrici), mentre Laura Grisi espose a quella del ’66.
Molti di loro ruotavano intorno a gallerie come la romana La Tartaruga o la torinese Sperone, che svolsero un ruolo fondamentale nel panorama artistico italiano.
E un po’ sorprende trovare in una mostra sulla Pop Art una rilevante presenza di artisti che hanno legato il loro nome alla straordinaria stagione dell’Arte Povera, a cominciare da Michelangelo Pistoletto con i quadri specchianti e Piero Gilardi con i “tappeti natura” (Zuccaia, 1966) ma anche Pino Pascali con i “pezzi anatomici”, ovvero particolari femminili ingigantiti come le Labbra rosse Omaggio a Billie Holiday del 1964 , e Gianni Piacentino con le sculture che alludono all’estetica industriale.
«Erano in tutto e per tutto dei Pop artisti – aggiunge Riccardo Passoni – seppero fare scelte che li identificarono subito come protagonisti di un nuovo modo di pensare l’opera d’arte. Avevano attivato un’attenzione particolare nei confronti del mondo, erano già predisposti a uno scatto in avanti, portatori di un cambiamento che poi è maturato successivamente con l’Arte Povera».
La mostra è anche l’occasione per la prima esposizione al pubblico dell’opera Simboli del Concilio (1965) di Ezio Gribaudo, recentemente donata alla GAM dall’artista torinese.
Emanuele Rebuffini