Fra i più importanti fotografi italiani contemporanei, Walter Niedermayr (Bolzano, 1952) ha messo al centro della sua ricerca artistica le grandi e piccole trasformazioni degli spazi, siano essi paesaggi alpini o architetture, indagando la relazione intensa e ambigua tra uomo e ambiente.
La mostra ospitata fino al 17 ottobre da CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia, curata da Walter Guadagnini, propone una cinquantina di opere di grande formato, esposte nella formula del dittico o del trittico, che rendono evidente come non siamo di fronte ad un semplice fotografo “di montagne”.
A differenza dei grandi maestri del genere, Walter Niedermayr non ritrae l’immutabilità delle montagne, l’immobilità delle rocce e dei ghiacci, bensì si concentra sul mutamento che il paesaggio alpino ha subito e continua a subire. Le stazioni di risalita, i condomini dei comprensori sciistici, le vedute di montagna con schiere di sciatori ridotti a piccoli punti colorati in movimento sul bianco abbacinante della neve: il paesaggio come paradigma dei limiti umani.
«Le fotografie di Niedermayr trovano la loro ragion d’essere e la loro identità nella presenza di qualcuno o qualcosa che ha cambiato, e continua a cambiare, l’elemento naturale, fino a far scomparire, o comunque a modificare, persino la roccia e il ghiaccio-spiega Walter Guadagnini-Senza facili moralismi e altrettanto facili nostalgie dei bei tempi antichi, ma con l’acutezza di uno sguardo che comprende e vuole mostrare la dialettica tra permanenza e impermanenza, tra ciò che esiste da sempre e ciò che ad esso si aggiunge, modificandolo, con tutte le conseguenze, sociali, storiche, scientifiche, anche solo banalmente cromatiche, del caso».
Le sue foto sono composizioni astratte e rarefatte, caratterizzate da tonalità neutre, che colgono la trasformazione non solo fisica dei luoghi, ma anche culturale e mentale.
In alcuni lavori della serie «Alpine Landschaften (Paesaggi Alpini)», la presenza dell’uomo nella raffigurazione di paesaggio è interpretata come un parametro di misurazione delle proporzioni dei panorami alpini, e al tempo stesso come metro politico del suo intervento nella metamorfosi degli equilibri naturali.
Di particolare interesse è la serie «Portraits (Ritratti)», connotata da una vena di ironia, dove i cannoni sparaneve inattivi nella stagione estiva e quindi coperti da teloni, diventano ambigue presenze che abitano la montagna, macchine antropomorfe impacchettate, solitari e silenti totem che come Moai alpini sono testimoni della trasformazione del paesaggio e ne divengono abitanti a tutti gli effetti, presenze che lo segnano e ne determinano l’identità.
Emanuele Rebuffini