Ad accogliere il visitatore è un letto intorno al quale sono sospese in aria tegole, mattoni, pietre, frammenti di legno e altre macerie, che paiono il frutto di un’esplosione bellica. Come quella che ha lacerato il Kosovo, Paese natale di Petrit Halilaj (1986), vincitore della seconda edizione del Mario Merz Prize e ora ospite fino al 3 febbraio alla Fondazione Merz con la personale intitolata «Shkrepëtima». Petrit Halilaj vive e lavora tra Germania, Kosovo e Italia, si è formato all’Accademia di Belle Arti di Brera, e nel 2013 ha rappresentato il suo Paese alla Biennale di Venezia. Nelle sue opere si intrecciano la storia e la memoria personale a quelle della sua comunità, come nell’installazione «Abetare», una scuola elementare kosovara ricostruita con tanto di banchi e graffiti, con cui l’artista ha vinto il Mario Merz Price.
Attraverso sculture ed installazioni monumentali, Halilaj ha ricostruito e ricontestualizzato le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena della performance tenutasi nel luglio del 2018 presso le rovine della Casa della Cultura di Runik, edificio che un tempo ospitava una biblioteca con oltre 7.000 volumi, un teatro, la sede della cooperativa sociale del villaggio, e che venne parzialmente distrutto durante il conflitto.
In lingua albanese «Shkrepëtima» – che era anche il nome della rivista culturale multietnica pubblicata a Runik tra gli anni Settanta e Ottanta dagli insegnanti della scuola locale – significa “lampo”, “fulmine”, “scintilla”, ovvero un pensiero improvviso e intenso che funziona come attivatore di coscienze in grado di riavviare un processo di riflessione sulla nostra identità.
I sipari rossi e i fondali dipinti usati nella performance sono disposti lungo l’asse longitudinale dell’edificio della Fondazione Merz e trasformano lo spazio espositivo in un palcoscenico dove si alternano le storie che Halilaj ha tratto da alcuni dei più importanti drammi albanesi recitati a Runik da compagnie amatoriali. Dall’alto degli uccelli, sculture realizzate con i costumi indossati dagli attori a Runik, osservano tutta la scena. Gli uccelli sono un animale ricorrente nell’immaginario e nelle opere dell’artista come metafora della capacità di essere liberi e in grado di oltrepassare confini geografici e barriere culturali. Infine, una serie di disegni e studi concettuali della performance realizzati su vecchi documenti trovati dall’artista nelle stanze della Casa della Cultura. Si tratta di relazioni commerciali e di fatture che facevano parte dell’archivio della cooperativa locale, testimonianza di una vita quotidiana che non c’è più. Artefatti neolitici a forma di uccello, battute prese dai copioni teatrali, studi per i costumi degli uccelli, oggetti di scena usati nello spettacolo: uno storyboard concettuale della performance e un ritratto visivo della storia culturale del villaggio dove il passato incontra il presente.
«Attraverso il suo linguaggio onirico e visionario, Halilaj ha raggiunto un sorprendente bilanciamento tra il peso della storia di questi frammenti e la leggerezza fisica data dalla loro sospensione-spiega il curatore Leonardo Bigazzi-intervenendo direttamente sui processi di costruzione della storia collettiva della sua comunità, riavvicinandola alle proprie origini, Halilaj propone anche una riflessione universale sul potenziale dell’arte e il suo potere di trasformare la realtà.»
Emanuele Rebuffini
Photo by Renato Ghiazza