«Scritto con un’ascia, non con la penna». Così il drammaturgo svedese Johan August Strindberg definiva Il padre, tragedia scritta nel 1887, un «capolavoro di dura psicologia» secondo l’amico Friedrich Nietzsche.
Nel corso di un’unica lunga notte nordica si consuma il conflitto tra il Capitano di cavalleria Adolf e la moglie Laura, originato da una banale vicenda familiare: l’educazione da impartire alla figlia Berta. Il Capitano vorrebbe mandarla a studiare in città, affinché diventi un’insegnate. Un desiderio contrastato dalla moglie, donna volitiva, spietata e pronta a tutto, che instilla nel marito il dubbio di non essere lui il padre della ragazza, dando il via a un calvario che farà precipitare l’uomo in un’angoscia devastante, scardinandone l’equilibrio mentale fino alla follia. Un corpo a corpo che lascerà il Capitano annientato, costretto ad indossare la camicia di forza, azzerato come padre e come uomo, privato anche del potere economico (la moglie lo farà interdire). Il salotto di famiglia, fatto di divani e tavolini sghembi, finirà per affondare in una gigantesca cascata di velluti rosso sangue, mentre il Capitano, annichilito e svirilizzato, si avvolge nello scialle della moglie.
Diretto e interpretato da Gabriele Lavia, che per la terza volta nella sua carriera si confronta con questo testo, “Il padre”, prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana, è in scena in questi giorni al Teatro Carignano (fino a domenica 11 marzo), ed è interpretato, oltre che da Lavia nei panni del protagonista, da Federica Di Martino (la moglie Laura), Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Pedron.
«L’intreccio del Padre è semplicissimo – spiega Gabriele Lavia – Un ‘marito’ sospetta che la ‘moglie’ lo abbia ‘tradito’ e che la ‘figlia’ sia figlia di un ‘altro’. Marito, moglie, figlia e…l’altro. Un intreccio, diciamolo pure, banale, che nelle mani di Strindberg diventa un ‘abisso’. O, meglio, il precipitare nell’abisso della perdita di ogni ‘certezza ontologica’ dello statuto virile della paternità e l’avvento della condizione di ‘incertezza dell’essere’ dell’uomo. Siamo alla fine dell’Ottocento. Solo la madre è certa. Il padre non è certo. Così il Capitano. Il Padre, cioè l’Uomo del Comando, privato di ogni ‘certezza’ è condannato a soccombere di fronte alla Donna che è più forte, perché ha la ‘certezza dell’essere’. La certezza dell’Essere contro l’incertezza del Non Essere. E se l’Essere Uomo diventa ‘non essere’, diventa proprio come Amleto, follia».
La crisi della famiglia borghese, la solitudine conseguenza di rigide e fredde regole, la lotta fra i sessi che mette a nudo i nodi irrisolti e porta la coppia a dilaniarsi ferocemente, sono al centro di un’opera che è un autentico scavo nella natura umana e che Gabriele Lavia ha allestito come archetipo del precipitare dell’uomo e della crudele sopraffazione da parte della donna.
«L’azione di quest’opera – afferma Gabriele Lavia – è tutta interiore e stretta nella morsa tragica dell’unità di tempo, luogo e azione nella quale deve essere compiuto il ‘delitto perfetto’: l’omicidio psichico. Il nostro spettacolo precipita l’azione dentro una vertigine di velluto rosso sangue dove il quieto salotto familiare comincia ad ‘affondare’ nel naufragio di ogni certezza. È il naufragio del mondo e della storia. Ma forse la vita non è altro che un naufragio».
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Emanuele Rebuffini
(ph. Tommaso Le Pera)