Gli indeterminati spazi, i sovrumani silenzi, la quiete e l’immensità cantati da Giacomo Leopardi sono i protagonisti delle oltre 200 opere esposte fino al 9 gennaio negli spazi della Citroniera juvarriana della Reggia della Venaria in occasione della mostra «Una infinita bellezza. Il paesaggio in Italia dalla pittura romantica all’arte contemporanea».
L’esposizione riunisce dipinti, molti di grandi dimensioni, ma anche sculture e installazioni di 130 artisti (il nucleo più importante, oltre 90 opere, provengono dalla GAM di Torino), che documentano l’attenzione per il paesaggio naturale dalla fine del Settecento e dal primo romanticismo, quando il paesaggio assunse lo status di soggetto autonomo, fino all’arte contemporanea, valorizzando soprattutto il contesto piemontese ed il nord della Penisola, senza trascurare la ricchezza artistica e culturale delle importanti scuole regionali del centro e sud Italia, in particolare gli artisti della Scuola di Posillipo, che nelle campagne e sulle coste tra Roma a Napoli ritrassero l’abbagliante luce mediterranea.
Curata da Guido Curto, direttore della Reggia di Venaria, da Riccardo Passoni, direttore della GAM, e da Virginia Bertone, la mostra si articola in 12 sezioni secondo un percorso storico-geografico, presentando le diverse forme che la rappresentazione del Paesaggio in Italia ha assunto nell’arco di oltre due secoli di pittura: le poetiche romantiche del pittoresco e del sublime, il paesaggio “istoriato”, l’affermazione positivista del vero, le nuove ricerche divisioniste e simboliste, le provocazioni delle Avanguardie e l’estetica del futurismo, l’informale, fino ad arrivare alla Pop Art, all’Arte povera e alle concettualizzazioni dell’arte contemporanea.
Ad avviare il percorso è un prezioso nucleo di tempere e acquerelli di Giuseppe Pietro Bagetti (“La Sacra di San Michele”, “Mare allo spuntare dell’aurora”) e di Giovanni Battista De Gubernatis, in cui la precoce attrazione per gli aspetti transitori e instabili della natura, che anticipa la sensibilità romantica, convive con vedute dalla precisione ottica, memori della tradizione topografica. Attraverso il filtro della cultura romantica, la natura si prestava a creare immagini capaci di suggerire le distanze a perdita d’occhio di un paesaggio o la varietà della sua bellezza, ma anche di evocare la forza distruttrice degli elementi naturali nei loro aspetti più inquietanti e misteriosi.
Un aspetto che caratterizza i primi decenni dell’Ottocento è la necessità fortemente sentita dagli artisti del nord Europa di completare la propria formazione in Italia seguendo la tradizione del Grand Tour, al fine di perfezionare la pittura dal vero: esemplare in questo senso il dipinto di Jean-Baptiste Camille Corot con la “Cascata delle Marmore”, unica opera dell’artista francese presente in una collezione pubblica italiana.
Massimo d’Azeglio e Giuseppe Bisi inserirono nelle loro tele episodi tratti dalla storia e dalla letteratura. Il fulcro di questa sezione è il dipinto “La morte del conte Josselin de Montmorency (presso Tolemaide in Palestina)”, dove il D’Azeglio trae spunto da un successo letterario del suo tempo, una vicenda d’amore e d’eroismo ambientata ai tempi delle crociate, suscitando ammirazione soprattutto per la novità di una visione “maestosa e grande” della natura colta nella sua varietà e singolare bellezza.
Il percorso espositivo pone poi l’accento sulle intense visioni poetiche di Antonio Fontanesi, dove il paesaggio è inteso come “stato d’animo”, rispecchiamento ed eco dell’animo umano, sulle nuove sensibilità divisioniste e simboliste che troviamo nelle opere di Angelo Morbelli (“La prima messa a Burano”) e di Giuseppe Pellizza da Volpedo (“Lo specchio della vita”), quindi Carlo Pittara, Federigo Pastoris, Ernesto Bertea, Ernesto Rayper, Alfredo De Andrade, Gaetano Previati, Pietro Fragiacomo e Giovanni Segantini.
Quando nel 1810 Umberto Boccioni scrisse, nel Manifesto dei pittori futuristi, che era ora di finirla “coi Laghettisti, coi Montagnisti”, dichiarava guerra alla “vecchia estetica” che stava trasformando il pittore di paesaggi in un produttore seriale di quadri per l’arredamento borghese, non certo al paesaggio in quanto tale, che troviamo anche nelle opere futuriste, in particolare Giacomo Balla.
Ecco poi Giorgio de Chirico, presente in mostra con lo splendido “Interno metafisico (con alberi e cascata), del 1918 (un capolavoro di quadro nel quadro: il paesaggio esiste all’interno dell’atelier dell’artista, confinato nei dipinti incorniciati e appoggiati sui cavalletti dello studio), Carlo Carrà, Giorgio Morandi, Filippo de Pisis e Felice Casorati (“Paesaggio toscano”, “Ragazza in collina”).
Negli anni del dopoguerra italiano sorprende il verificare come il tema del paesaggio abbia coinvolto persino i maggiori artisti informali, con esiti intensi, fisici e perfino materici: Renato Birolli, Ennio Morlotti, Alfredo Chighine, Emilio Vedova sino a Luigi Spazzapan.
Non mancano restituzioni iconografiche del tema anche nell’alveo della Pop Art italiana, pur votata a scrutare segni e simboli della vita moderna. Mario Schifano nei suoi smalti sontuosi passa dalla provocazione de “Io non amo la natura” del 1964 ai successivi “Paesaggi anemici”, mentre “La Zuccaia” (1966) di Piero Gilardi è una reinvenzione gioiosa, tridimensionale ed artificiale di un elemento del paesaggio agricolo, una piccola sezione di un campo di zucche.
Nella sezione dedicata al dialogo tra gli artisti contemporanei con l’ambiente ed il paesaggio, giace a terra il calco in cera del virgulto d’albero scavato e ritrovato dentro a una vecchia trave da Giuseppe Penone, intitolato “Propagazione”, perché segnala lo scorrere del tempo, la maestosa terrecotta-paesaggio di tema mitologico, “Nascita di Orco ed Elefantessa” di Luigi Mainolfi, “Le Trois arbres blanches”, bassorilievi di candido polistirolo espanso modellati da Ezio Gribaudo, una coloratissima e astraente veduta di Torino di Nicola De Maria, le periferie post-industriali “foto-copiate” dalla coppia torinese Botto&Bruno, la ‘riscoperta’ dei campi fioriti di una natura prelevata ormai dai manifesti, piuttosto che vissuta, di Stefano Arienti, i foto-paesaggi stampati su tessuto velati da trasparenti plastiche di Elisa Sighicelli, un vasto e rossastro paesaggio eseguito a matite colorate e impronte digitali da Luisa Rabbia, le montagne dipinte da Daniele Galliano con stile medialista (termine coniato negli anni ottanta dal critico Gabriele Perretta per indicare quei dipinti “mediati” da una fotografia), le vallate neo-metafisiche inquadrate da Pier Luigi Pusole; le fotografie in bianco e nero cancellate da Laura Pugno e trasformate in una installazione, l’altissima orchidea metallica di Luisa Valentini, il grande alveare sferico in fusione bronzea di Jessica Carroll, il “Nido” di Maura Banfo, per chiudere con la grande videoinstallazione “Orbite Rosse” di Grazia Toderi.
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Emanuele Rebuffini