Un viaggio nello spazio e nel tempo per celebrare il miracolo della visione. Fino al 29 gennaio Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea ospita nella sede torinese la mostra «QUI (DA LONTANO», un corpus di opere inedite di Giulio Paolini. Tre sculture, un arazzo e una serie di collage in cui riflette sulla figura dell’artista, la vertigine del tempo, prossimità e distanza, familiare e straniero, consueto ed esotico.
Nato a Genova nel 1940 ma torinese d’adozione, Giulio Paolini è stato tra i protagonisti dell’Arte Povera, anticipando gli sviluppi concettuali dell’arte a livello internazionale.
I collage raffigurano luoghi esotici, siti archeologici mai visitati dall’artista: Jaipur, Persepoli, Isfahan, Tabriz, Meshad, Shiraz, Darab. «L’orizzonte è mutevole, sempre diverso: unisce o divide due aree contrapposte. È un contatto virtuale utile a raffigurare, ma non a definire, una giustapposizione visiva. Sopra e sotto, qui e oltre avvistiamo superfici che si toccano senza rumore, senza indicare su quale delle due crediamo di abitare. Spazio e Tempo si contendono la misura del Vero, di quanto sembra ospitare la nostra esperienza. Da Jaipur a Darab, Persepoli e Isfahan la distanza da percorrere è notevole, ma irrilevante o addirittura inesistente se questi o altri luoghi si traducono in immagini fotografiche, carta da disegno, matita e compasso a disposizione del “viaggiatore”. Il quale sa, per buona regola e vita vissuta, rivelare a se stesso l’esperienza – se così si può dire – di non muovere un passo: restare fermi per accogliere l’istantaneità della visione».
«In orbita», è una scultura formata da due calchi in gesso di mani femminili, orientate l’una verso il basso e l’altra verso l’alto, posati sulla riproduzione fotografica di una mappa stellare e sormontati da una sfera armillare che trattiene un goniometro: le due mani orientate in senso contrapposto sembrano sostenere nello spazio cosmico gli elementi in equilibrio precario, un contatto fisico tra il soggetto e l’universo.
In «Caduta libera», il calco in gesso di una mano aperta, orientata in verticale, tenta invano di trattenere quattro frammenti lacerati di una riproduzione fotografica del cielo, nell’impraticabile eppur irrinunciabile tentativo di afferrare l’assoluto.
«Habitat» è un’installazione costituita da tre espositori in plexiglas triangolare che fungono da quinte teatrali per la messa in scena di un assieme di oggetti: una pietra pirite, una rosa gialla (citazione di un racconto di Borges), un pennello usato, una boccetta di inchiostro azzurro, frammenti cartacei di appunti autografi dell’artista, una clessidra e un compasso che cinge una lente di ingrandimento. Un compendio di oggetti cari a Paolini, in virtù della loro dimensione simbolica: gli strumenti dell’artista nel trascorrere del tempo e nella fisicità dello spazio.
Sulla parete è esposto un arazzo tessuto a mano dal prestigioso Ateliers Pinton, dal titolo «Dopo Tutto». Una figura maschile vista di spalle è intenta a osservare un quadro, evocato per mezzo di un tracciato lineare, mentre in primo piano l’immagine di una cornice dorata inquadra la scena medesima. In questa successione alterna di inquadrature, lo sguardo del protagonista non vede alcunché, dal momento che il “quadro” definito dalla cornice dorata cade alle sue spalle. Nelle parole dell’artista: «La figura rappresentata, anziché volgersi come di solito verso noi osservatori, occupa la nostra stessa collocazione: è rivolta ad un al di là, verso qualcosa che non è dato vedere». Autore e spettatore vengono a coincidere nella stessa figura, anonima, che, in una sorta di autoritratto rovesciato, sembra interrogare il proprio sguardo tanto quanto la propria identità.
La parete opposta ospita il collage «A perdita d’occhio»: al centro la fotografia di una nave è inscritta in riquadri bianchi e neri, a loro volta applicati su un’immagine del mare al tramonto. La nave è diretta frontalmente verso l’osservatore irradiando una scia di tele al recto e al verso, particolari di studi, schizzi e dettagli fotografici. La nave procede dunque verso di noi in un movimento che dalla luce conduce all’oscurità. Nelle parole dell’artista: «Il flusso che si deposita ai lati del soggetto centrale, la scia tracciata sull’acqua dal carico di intenzioni e proiezioni che avanza verso di noi si traduce in un intreccio di immagini che evocano altre superfici disperse a perdita d’occhio».
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Emanuele Rebuffini