“Elvira”, il nobile mestiere di recitare. Toni Servillo è Jouvet al Teatro Carignano

“Perché noi non possiamo sapere nulla sul teatro, ancora meno che su qualsiasi altra cosa”. Al Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi, in sette sedute che hanno luogo tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, il grande attore di cinema e teatro Louis Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia (in realtà si chiamava si chiamava Paula Dehelly), l’ultima scena del personaggio di Elvira nel «Don Giovanni» di Molière, dove la donna dice addio al suo antico amante, scongiurandolo di abbandonare la vita scellerata per salvare la propria anima. Le lezioni vennero minuziosamente stenografate da Charlotte Delbo. Con l’occupazione nazista Louis Juvet abbandonò la Francia, Paula Dehelly fu costretta a lasciare le scene a causa delle origini ebraiche, Charlotte Delbo entrò nella Resistenza, venne deportata e sopravvisse ad Auschwitz.

Nel 1986 la regista svizzera Brigitte Jaques con «Elvire Jouvet 40» riscrisse in forma teatrale le sette lezioni. Da questo testo è partito Toni Servillo, in scena al Teatro Carignano fino al 25 marzo con «Elvira», spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro e da Teatri Uniti. Muovendo dalla nuova traduzione di Giuseppe Montesano, Toni Servillo dirige e interpreta l’apologo del mestiere dell’attore, facendo della messa in scena una “confessione”, accanto a tre giovani interpreti: Petra Valentini (Elvia/Claudia), Davide Cirri (Lèon/Sganarello) e Francesco Marino (Octave/Don Giovanni).

«Elvira-spiega Toni Servillo-porta il pubblico all’interno di un teatro chiuso, quasi a spiare tra platea e proscenio, con un maestro e un’allieva impegnati in un particolare momento di una vera e propria fenomenologia della creazione del personaggio. Assistiamo ad una relazione maieutica che si trasforma in scambio dialettico, perché il personaggio è per entrambi un territorio sconosciuto nel quale si avventurano spinti dalla necessità ossessiva della scoperta. Dopo anni in cui le riflessioni di Louis Jouvet sul teatro e sul lavoro di attore mi hanno fatto compagnia nell’affrontare repertori diversi, da Molière e Marivaux, da Eduardo a Goldoni, mi è parso necessario che arrivasse il momento di un incontro diretto».

Una straordinaria iniziazione al lavoro sul palcoscenico, una celebrazione del teatro e del mestiere di attore, della passione per l’arte, della trasmissione del sapere tra generazioni. «Metterlo in scena oggi rappresenta per un attore una grande occasione di ecologia della mente. Approfondirlo significa rimettere al posto giusto certi termini, dare un senso a certe parole e a certi comportamenti della scena, come il sentimento, l’emozione, la lunghezza della frase, l’analisi del testo».

Louis Jouvet insegna che quello che viene senza sforzo non è mai bene, la recitazione non è mera tecnica, è disciplina, impegno, sacrificio, antidoto alla sciatteria e alla volgarità. Una lezione di vita, dunque, poiché l’arte della recita ha a che vedere con la maniera di stare al mondo. Perché il teatro è “una cosa dello spirito, un culto dello spirito”, “recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza”. Non si può fare teatro “senza pensarlo”, senza porsi delle domande su perché lo si fa e lo si va a vedere. Forse “perché il teatro è fatto per insegnare agli altri cose che avvengono intorno a loro”.

«Lo spettacolo parla della necessità della formazione – aggiunge Toni Servillo – io mi riferisco solo al mondo del teatro perché è quello che mi appartiene e al quale appartengo, però credo che il vero deficit italiano sia la formazione, con la difficoltà di educare e insegnare. Ma è pure vero che siamo vittime, in questo Paese, negli ultimi trent’anni, di una cultura che ha messo al centro il modello della mediocrità. Si crede che tutto sia facilmente raggiungibile: con Elvira, si dimostra la nobiltà di un talento così distante da noi, che muove l’ambizione di una grande fatica per ottenere di avvicinarsi a un modello così distante. Bisogna lavorare. E compiere un percorso: questo è il modello che Jouvet si poneva davanti ai suoi personaggi».

Toni Servillo muove su due piani la propria indagine, facendo emergere la passione dell’artista francese per il teatro, animata da un rigore che tende alla poesia. La cura straordinaria messa nella stenografia riporta quasi cinematograficamente le sensazioni, le inquietudini, il silenzio o i movimenti dei presenti, rendendo partecipe ogni spettatore del segreto del teatro nel suo divenire.

Louis Jouvet formula a proposito dell’attore la famosa distinzione comédien/acteur: “il comédien è per così dire il mandatario del personaggio, mentre l’acteur delega se stesso personalmente. Il comédien esiste grazie allo sforzo, alla disciplina interiore, a una regola di vita dei suoi pensieri, del suo corpo. Il suo lavoro si basa su una modestia particolare, un annullarsi di cui l’acteur non ha bisogno”.

«Trovo il complesso delle riflessioni di Jouvet particolarmente valido oggi – afferma Toni Servillo – per significare soprattutto ai giovani la nobiltà del mestiere di recitare, che rischia di essere svilito in questi tempi confusi. Il mestiere dell’attore in questi anni conosce, sul piano popolare, una sorta di banalizzazione, quando non di volgarizzazione, legata esclusivamente a un talento, che molto spesso è solo espressione generica di una capacità funambolica, che ha poco a che fare con l’interpretazione di un classico e di un personaggio, rispetto al quale di questo talento non sai cosa fartene. Serve allora una sorta di cultura personale e di disciplina, capace di mettere in discussione tutto questo, perché gli attori sappiano che quando si misurano con un testo si confrontano con un materiale poetico, che essi stessi devono diventare poesia vivente. Jouvet parla a tutti ed il suo tentativo di costruire un alfabeto dei sentimenti costituisce un antidoto ai nostri tempi frettolosi».

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Emanuele Rebuffini

Foto di Fabio Esposito