È stato Giuseppe Ungaretti a pronunciare un’indimenticabile sentenza verso l’arte di Alberto Burri (Città di Castello, 1915-Nizza, 1995): «Amo Burri perché non è solo il pittore maggiore d’oggi ma è anche la principale causa d’invidia per me: è d’oggi il primo poeta».
La Fondazione Ferrero di Alba (Cuneo) ospita fino al 30 gennaio la mostra «Burri. La poesia della materia», curata da Bruno Corà, critico, storico d’arte e presidente della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, che, attraverso quarantacinque opere, non solo rende omaggio ad uno dei più originali artisti del XX secolo, capace di aprire nuovi orizzonti estetici e di far parlare la materia attraverso la pittura, ma indaga il rapporto tra Burri e la poesia.
Spiega Bruno Corà: «Il titolo della mostra deve essere preso alla lettera. Non si tratta affatto solo di un ennesimo generico invito a considerare l’importanza decisiva della materia nella poetica di Burri. Ai visitatori proponiamo invece di assistere a un’indagine in fieri sul rapporto strettissimo, non solo a livello di fruizione estetica, ma autenticamente strutturale, costitutivo, tra l’opera di Alberto Burri e la parola in versi, la grande poesia del ‘900 e non solo. Nonostante l’assiduità nell’impiego delle diverse materie, ricavandone ogni volta la medesima forza espressiva e analoghi esiti linguistici, Burri non ha mai esaltato la materia per se stessa, cioè come finalità a cui ascrivere la sua poetica, piuttosto egli l’ha considerata elemento base reale con cui raggiungere una qualità di spazio e una forma che non ha esitato a definire di “equilibrio squilibrato, ma pur sempre equilibrio”, fino a sancirne nell’immagine la sua essenza. La materia, pur essendo centrale nella preparazione dell’opera, è sempre stata al servizio della creazione di un’idea poetica di immagine».
La scelta di opere presentate in mostra alla Fondazione Ferrero copre un arco temporale che va dal 1945, con i primi “Catrami” (1948), sino alle ultime opere “Oro e nero” datate 1993. Tra i lavori esposti, opere prime di Burri appartenenti ai cicli dei “catrami”, delle “muffe”, dei “sacchi”, “delle combustioni”, dei “legni”, dei “ferri”, delle “plastiche”, dei “cretti” e dei “cellotex”.
Ma la prima opera in mostra è un olio su tela, intitolato “Texas”, realizzato nel 1945 nel campo di prigionia di Hereford, dove il giovane medico Burri era stato inviato dopo essere stato fatto prigioniero in Africa dagli inglesi. Un paesaggio in cui si vede una fattoria, una pala eolica, due alberi, un sentiero, ma soprattutto la densa terra gialla e rossa che sembra assorbire tutto. Nel 1946 si stabilisce a Roma e si dedica completamente alla pittura, realizzando nel 1949 l’assemblage “SZ1”, utilizzando un lembo di tela recuperata da un sacco di zucchero recante la stampigliatura della bandiera americana. L’opera anticipa i celebri “Sacchi”, che Burri inizia a realizzare dal 1950, utilizzando sacchi di juta consumati e sfrangiati, attraversati da varie cuciture, rattoppi e tracce di colore, destando sorpresa e sconcerto nell’ambiente culturale, che fatica a comprenderne la portata innovativa e la rara potenza poetica. Crateri, buchi, tagli, cuciture potrebbero apparire rimandi al sangue, alle ferite, alle bende degli anni di guerra, ma Burri ha sempre smentito trattarsi di biografici echi di dolore. Siamo, invece, di fronte a una Poesia Visiva attraverso l’ostensione della materia. «Con una valenza sovvertitrice della grande tradizione Burri, da quel momento, sostituisce all’impiego del colore, della linea e del supporto consueto della tela, su cui rappresentare e dare vita a un’immagine, la materia stessa, ‘presentata’ fisicamente, abolendo ogni finzione mimetica».
L’arte di Burri è stata un laboratorio di sperimentazione incessante. Materiali come catrame, pietra pomice, vinavil, tele e stoffe, segatura, corda, sabbia, gesso, terra, ferro, oro e cellotex (legname compresso per uso industriale) sono stati da lui impiegati con una totale libertà d’azione. A metà degli anni Cinquanta nascono le “Combustioni”, dove l’erogatore della fiamma viene utilizzato non per distruggere, ma per creare varchi e costruire nuove immagini. Le realizza per oltre vent’anni, dal 1951 al 1971, abbandonandole poi per dedicarsi ai “Cretti”, dove obbliga il nostro sguardo a percorrere fratture bianche o nere.
Nel 1985 Alberto Burri venne invitato dal sindaco di Gibellina, a realizzare un’opera per la città siciliana ricostruita dopo il terremoto del Belice. Nasce così una gigantesca opera di land art, il Grande Cretto di Gibellina, che con i suoi 80mila metri quadrati di ampiezza contiene l’intero abitato del paese andato distrutto nel febbraio del 1968, un enorme sudario di cemento bianco, che non solo evoca la catastrofe, ma dimostra il potere dell’arte di dare un senso alle cose.
La mostra, promossa dalla Fondazione Ferrero in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri e la partecipazione della GAM-Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica.
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Emanuele Rebuffini
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