Fino al 30 settembre le OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino ospitano “Forgive me, distant wars, for bringing flowers home”, mostra personale del trio di artisti Ramin Haerizadeh (1975), suo fratello Rokni Haerizadeh (1978) e Hesam Rahmanian (1980), di origine iraniana e residenti a Dubai, negli Emirati Arabi. La mostra (il titolo è il verso di una poesia di Wislawa Szymborka), curata da Abaseh Mirval, non vuole essere una retrospettiva, infatti nasce come progetto site-specific che vede le OGR trasformarsi in una sorta di atelier temporaneo dove viene messo in scena il loro variegato, caotico ed eccentrico mondo e la loro pratica artistica: non un semplice ‘collettivo’, ma una “collaborazione creativa”, processuale ed inclusiva, grazie alla quale le pratiche individuali dei tre artisti interagiscono e si arricchiscono reciprocamente dal punto di vista tecnico, linguistico ed espressivo, includendo anche i contributi di altre persone (artisti, falegnami, allestitori, tecnici, light designer) e dando vita in ogni occasione alla creazione di qualcosa di veramente nuovo sotto tutti i punti di vista.
Ricollegandosi all’esperienza del gruppo Fluxus, Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian rifiutano il concetto di autorialità e non considerano le loro opere come opere d’arte vere e proprie: il senso del lavoro non sta nel risultato finale – sia esso oggetto, un disegno o un video – ma nell’intero processo di esplorazione che porta a quel risultato.
Parte integrante della loro pratica collaborativa è la creazione di una serie di alter ego o dastgah (parola che nella lingua farsi significa dispositivo o macchina), “creature” ibride e grottesche che permettono ai tre artisti di giocare con le loro identità individuali, lavorando su temi legati al linguaggio, allo spazio vuoto, al potere, alla trasformazione, all’appartenenza, al dislocamento, all’esilio, al dolore e alla distruzione. Personaggi antropomorfi, fitomorfi o zoomorfi, con il corpo coperto da un assemblaggio di oggetti e qualche tipo di limitazione sensoriale o motoria, piccole persone con nasi e orecchie da roditore, code di pesce o teste di lattuga, agiscono in un modo surreale e fantastico. Reinterpretando la pratica dell’objet trouvé, gli artisti selezionano oggetti della vita quotidiana per raccontare la loro storia: oggetti logori, malconci o dimenticati vengono reinventati in un mondo parallelo dove acquisiscono nuovi significati, fornendo letture sottili, a volte opache, delle nostre società contemporanee.
I temi sociali che affliggono la contemporaneità sono presenti in diverse opere, come la serie Where’s Waldo?, lavori su carta in cui gli artisti si appropriano e manipolano attraverso la pittura immagini di cronaca tratte dai media e trasmesse dai notiziari; Individual Practices, un archivio di immagini pubbliche e private scattate prima e dopo la rivoluzione iraniana e raccolte negli anni successivi e From Sea To Dawn, un dipinto in movimento in cui gli artisti costruiscono complessi racconti visivi appropriandosi di immagini tratte dai mass media: dopo aver scaricato e stampato migliaia di fotogrammi tratti da video di YouTube o da varie trasmissioni televisive – ad esempio documentari e immagini di quotidiani e riviste sulla crisi dei migranti e il conflitto siriano – intervengono sulle immagini per trasformare i loro protagonisti in creature ibride, incroci di animali ed esseri umani. Emerge un’immagine dell’umanità violenta e mostruosa e ciò che nasce come filmato documentario o di reportage si trasforma in una complessa allegoria dell’universalità della violenza.
Emanuele Rebuffini
Foto di Andrea Rossetti