«Critica cinematografica e fotografa straordinaria». Il 23 aprile 2009 sul “Chicago Tribune” esce un necrologio firmato da John, Lane e Matthews Gensburg. I tre fratelli rendevano così omaggio alla loro tata, che li aveva accuditi da bambini tra il 1956 ed il 1972. Si chiamava Vivian Maier, era nata a Manhattan nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Cresciuta in Francia, rientrerà poi a New York con la madre nel 1938. Una donna colta ed intraprendente, una vita trascorsa a lavorare come bambinaia per decine di famiglie di New York e di Chicago e a scattare fotografie, e morta in povertà all’età di ottantatré anni. Senza sapere che due anni prima il suo box, con tutte le scatole che vi erano contenute, era stato messo all’asta per il mancato pagamento dell’affitto. Ad acquistarlo fu John Maloof, giovane artista ed agente immobiliare, che si ritrovò così tra le mani un tesoro di oltre 140mila immagini tra stampe, negativi e pellicole non sviluppate. Nasceva così la leggenda della “tata fotografa”, oggi universalmente riconosciuta come una delle massime esponenti della “Street photography”.
La sorprendente vicenda umana ed artistica di Vivian Maier viene ricostruita nella mostra «Inedita», ospitata fino al 26 giugno alle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino. Curata da Anne Morin, l’esposizione presenta oltre 250 immagini, molte delle quali inedite o rare, come la serie di scatti realizzati durante il suo viaggio in Italia, in particolare a Torino e Genova, nell’estate del 1959 (nel luglio di quell’anno Vivian Maier passeggia per Torino e fotografa le mura romane, il Duomo, piazza Castello, il mercato di Porta Palazzo), e quelle a colori, scattate lungo tutto il corso della sua vita. A queste si aggiungono dieci filmati in formato Super 8, due audio con la sua voce e vari oggetti che le sono appartenuti come le sue macchine fotografiche, la Rolleiflex (acquistata nel 1951 dopo aver venduto la casa di famiglia a Champsaur) e la Leica (utilizzata a partire dalla metà degli anni Settanta), e uno dei suoi cappelli.
Il suo sguardo sempre attento ad esplorare le relazioni tra gli spazi urbani e le persone, privilegiava gli istanti residuali della vita sociale cui nessuno presta attenzione, quello che generalmente non si nota. Nelle sue cronache fotografiche da marciapiede si soffermava su coloro che sono relegati ai margini della modernità così come sulle eleganti signore dell’alta società, cogliendo l’universalità della condizione umana.
La mostra tocca i temi più caratteristici della sua cifra stilistica e si apre con la serie dei suoi autoritratti riflessi negli specchi o nelle vetrine, mentre la sua lunga ombra invade l’obiettivo.
Una sezione è dedicata agli scatti catturati tra le strade di New York e Chicago. Vivian Maier predilige i quartieri proletari delle città in cui ha vissuto. Instancabile, cammina per tutto il tessuto urbano popolato da persone anonime, che davanti al suo obiettivo diventano protagoniste e recitano inconsciamente un ruolo.
Le scene che diventano oggetto delle sue narrazioni sono spesso aneddoti, coincidenze, sviste della realtà, momenti della vita sociale a cui nessuno presta attenzione. Ognuna delle sue immagini si trova proprio nel luogo in cui l’ordinario fallisce, dove il reale scivola via e diventa straordinario.
Oltre ai ritratti, Vivian Maier si concentra sui gesti, redigendo un inventario degli atteggiamenti e delle posture delle persone fotografate che tradiscono un pensiero, una intenzione, ma che rivela la loro autentica identità. Le mani sono spesso le protagoniste di queste immagini perché raccontano, senza saperlo, la vita di coloro a cui appartengono.
Agli inizi degli anni sessanta si nota un cambiamento nel suo modo di fotografare. La sua relazione con il tempo sta cambiando, e il cinema sta già cominciando a insinuarsi e ad avere la precedenza sulla fotografia. Vivian Maier inizia a giocare con il movimento, creando sequenze cinetiche, come se cercasse di trasportare le specificità del linguaggio cinematografico in quello della fotografia, creando delle vere e proprie sequenze di film.
Come naturale conseguenza, inizia a girare con la sua cinepresa Super 8, documentando tutto quello che passava davanti ai suoi occhi, in modo frontale, senza artifici né montaggi.
Un importante capitolo della mostra è dedicato alle fotografie a colori. Se da un lato, i lavori in bianco e nero sono profondamente silenziosi, quelli a colori si presentano come uno spazio pieno di suoni, un luogo dove bisogna prima sentire per vedere. Questo concetto musicale di colore sembra riecheggiare nello spazio urbano, come il blues che scorre per le strade di Chicago e, in particolare, nei quartieri popolari frequentati dal Vivian Maier.
Una sezione è dedicata al tema dell’infanzia, che ha accompagnato Vivian Maier per tutto il corso della vita. Come governante e bambinaia per quasi quarant’anni ha preso parte alla vita dei bambini a lei affidati, documentando i volti, le emozioni, le espressioni, le smorfie, gli sguardi, così come i giochi, la fantasia e tutto il resto che abita la vita di un bambino.
http://www.vivianmaier.it
Emanuele Rebuffini