Un avvincente percorso tra le opere di 21 “Nuovi Maestri” dell’arte italiana del dopoguerra, capaci di segnare profondamente non solo la scena artistica domestica ma di diventare punto di riferimento nel panorama internazionale. Le Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino ospitano fino al 2 marzo la mostra «1950-1970. La grande arte italiana», curata dalla direttrice della GNAM-Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Renata Cristina Mazzantini e dallo studioso Luca Massimo Barbero.
È la prima volta che un cospicuo numero di opere, ben 79, vengono riunite insieme per la prima volta fuori dal museo della Capitale, per raccontarci la vivace temperie culturale italiana maturatasi tra gli anni Cinquanta e Settanta e i dialoghi intercorsi in quella stagione tra gli artisti più importanti, rendendo omaggio allo straordinario ruolo svolto dalla ‘leggendaria’ direttrice della GNAM, Palma Bucarelli, che ne resse le fortune dal 1941 al 1975, intrecciando rapporti con gli artisti più significativi e innovativi come Alberto Burri, Lucio Fontana, Ettore Colla e Giuseppe Capogrossi.
La Galleria Nazionale fu un vero e proprio laboratorio del contemporaneo, aprendo le sue sale ai quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto, alle corrosive critiche al potere costituito di Franco Angeli, alle provocazioni di Piero Manzoni e alle opere di Pino Pascali.
Erano gli anni dell’accesa controversia tra astrattismo e realismo, che coinvolse non solo il mondo artistico e intellettuale ma anche quello politico (Umberto Terracini presentava un’interrogazione parlamentare per conoscere l’importo speso dalla Galleria Nazionale per assicurarsi il “Grande sacco” di Alberto Burri).
Da un lato i figurativi, legati a una tradizione realista e impegnata politicamente come Renato Guttuso e il gruppo Corrente. Dall’altro gli astrattisti, concentrati su un’arte più concettuale e internazionale che cercava di superare i limiti della rappresentazione realistica ed esplorare nuove dimensioni spaziali e formali. Se il PCI rifiutava l’astrattismo in quanto arte elitaria lontana dalla realtà sociale, il gruppo Forma 1, con Piero Dorazio, Giulio Turcato e Carla Accardi, proponevano di conciliare l’astrattismo con l’impegno politico attraverso una sintesi tra ricerca formale e valori sociali.
La mostra si apre con due lavori simbolici, uno di Ettore Colla “Rilievo con bulloni” del ‘58/‘59 e un altro di Pino Pascali “L’arco di Ulisse” del ’68; e prosegue una sala di capolavori di Giuseppe Capogrossi, tra cui una monumentale “Superficie” del 1963: il suo caratteristico ‘segno’, sia esso un pettine o una forchetta, viene elaborato in tutte le maniere possibili, ingrandendolo, riducendolo, stilizzandolo, deformandolo e mettendolo in costante relazione con lo sfondo e la superfice pittorica.
Il cardine della mostra si ha nel confronto tra Lucio Fontana e Alberto Burri, ovvero l’idea spaziale e l’approccio materico attraverso il dialogo tra 11 emblematiche opere. Assistiamo all’utilizzo nella pratica pittorica di materiali non convenzionali, come scarti industriali, sacchi di juta, plastiche, catrami e metalli, calce e polvere di cemento, ma se Fontana evoca la possibilità di fondere armonicamente arte e industria, Burri riflette la drammatica condizione esistenziale dell’uomo.
Il fermento artistico e creativo che si sviluppò a Roma tra gli anni ’50 e ‘60 è rappresentato da Afro e Piero Dorazio, due maestri dell’astrattismo che contribuirono al successo dell’arte italiana negli Stati Uniti, Mimmo Rotella con il rito della lacerazione dei manifesti pubblicitari’, Bice Lazzari, Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Giulio Turcato, Gastone Novelli, Toti Scialoja, Sergio Lombardo, Tano Festa, Franco Angeli, per poi arrivare a Michelangelo Pistoletto, alle celebri “Cancellature” di Emilio Isgrò e alle opere di Mario Schifano.
Ma ci sono due artisti, accomunati dalla prematura scomparsa, che furono particolarmente cari a Palma Bucarelli: Piero Manzoni, “uno dei più dotati artisti delle nostre giovani generazioni”, di cui in mostra possiamo ammirare alcuni importanti “Achrome”, opere realizzate a partire dal 1957, caratterizzate dall’assenza totale di colore e dall’uso di materiali semplici; e Pino Pascali, dissacrante artista concettuale, che nella “Ricostruzione del dinosauro” del 1966 e nei “Bachi da setola” del 1968 indagava con un gioco ambiguo il rapporto tra arte, rappresentazione e natura, mentre in “Primo piano labbra” alludeva all’aggressività delle pubblicità del nuovo mondo massmediale.
Pascali riuscì ad unire idealmente Roma e Torino, infatti, presentando nel 1966 la serie delle “Armi” alla Galleria Sperone di Torino, segnava il passaggio di testimone dalla scena romana alla stagione torinese dell’Arte Povera.
Una mostra da non perdere, una delle più importanti degli ultimi anni.
Voto: 10.
Emanuele Rebuffini