«Mio padre mi annunciò che l’indomani mi sarei dovuto trasferire dai nonni materni […], dove mia nonna Rosmina era anche la portinaia dello stabile. Mi dette qualche soldo e mi fece partire in fretta, in treno. Il giorno dopo mia mamma partì per Borgo d’Ale, e la settimana seguente si nascose anche lui […]. Non metteva mai fuori il naso, perché era un notorio fascistone, e a quei tempi si ammazzava per niente» (p. 14). Pagine dense di commozione rievocano la scia di morti, la paura e l’orrore che contraddistinsero l’epoca della fine della guerra e delle rappresaglie, anche nella piccola Borgo d’Ale.
Mentre l’Italia riprende a vivere ha inizio per Regge la stagione degli studi universitari, il biennio al Politecnico di Torino e poi la Facoltà di Fisica. Qui si apre un mondo di incontri, scoperte, viaggi che lo porterà negli Stati Uniti, a Rochester e poi a Princeton, e di nuovo in Italia, come ricercatore e come docente.
L’attività scientifica si intreccia con la vita famigliare, il matrimonio con la fisica Rosanna Cester, da cui nascono Daniele, Marta e Anna, la conoscenza o la collaborazione con scienziati di livello mondiale, tra cui vari premi Nobel, nel ricordo dei quali hanno grande rilievo le peculiarità caratteriali di ognuno.
Nel descrivere l’approccio con le appassionanti ricerche condotte, lo scienziato usa a più riprese una parola chiave, “divertimento”, che si rivela una costante nel modo di affrontare questo aspetto così vitale della sua esistenza, ma mai dominante rispetto alle relazioni umane.
Dopo la feconda esperienza americana Tullio Regge torna con la famiglia a Torino. È il 1978-79. Nel prendere la decisione «a parte le motivazioni professionali, un peso determinante lo ebbe Torino, che per me ha un significato profondo. Sono molto legato a questa città, alla stessa cultura che esprime. Né dimentico che Torino ha una lunghissima tradizione scientifica, fin dai tempi dell’Illuminismo e di Lagrange – scienziato all’altezza di Galileo, Newton, Einstein – che però molti conoscono solo perché dà il nome ad una nota strada» (p. 115).
Verranno anni di insegnamento, divulgazione della scienza ad un pubblico il più possibile ampio attraverso conferenze, libri e strumenti informatici, realizzazioni che coniugano arte e modelli matematici, l’esperienza al Parlamento Europeo e ancora incontri.
Emblematico, per quanto permette di leggere di entrambi gli interlocutori, quello con Primo Levi: «A metà cena fece una pausa improvvisa e, quasi casualmente, disse: «Tra parentesi, durante la guerra sono stato in campo di concentramento». Un’espressione di una sobrietà monumentale. Non seppi cosa rispondere e temo di aver blaterato qualche nonsenso. Molti anni dopo fui invitato a visitare la Polonia. Finii a Cracovia e quindi ad Auschwitz. Passai sotto il cancello con l’infame scritta: «Arbeit macht frei» («Il lavoro rende liberi»). Vidi il film girato dall’Armata rossa. Ascoltai la Marcia funebre di Beethoven. Vidi fotografie spaventose, terribili. Lessi statistiche terrificanti. Pensai a Primo. Con tutto ciò, ancora oggi continuo a non sapere cosa avrei potuto dire per sostenere con lui una conversazione sull’Olocausto» (p. 135).