«Rumori fuori scena». Al Teatro Carignano con Valerio Binasco e Milvia Marigliano

«Sto iniziando a capire come si è sentito Dio quando si è seduto nell’oscurità a creare il mondo» (Lloyd Dallas): fino al 27 ottobre il Teatro Carignano ospita, in prima nazionale, «Rumori fuori scena» dello scrittore e drammaturgo inglese Michael Frayn, per la regia di Valerio Binasco.

Vero cult del teatro contemporaneo, «Rumori fuori scena» racconta le goffe vicissitudini di una scalcagnata e stravagante compagnia teatrale alle prese con le prove di uno spettacolo. La pièce, che ha debuttato al Lyric Theatre di Londra nel 1982 (e che ha conosciuto anche un adattamento cinematografico diretto nel 1992 da Peter Bogdanovich) è un riuscito esempio di metateatro o teatro sul teatro, dove si ironizza sulle dinamiche tra gli attori e le difficoltà che si nascondono dietro a uno spettacolo. In tre atti, allestimento, debutto e tournée, gli spettatori assistono alla prova generale, congegno perfetto ed esilarante di entrate e uscite. La quotidianità del teatro lascia spazio alla sua natura istrionica: una ‘macchina di risate’ che permette al pubblico di sbirciare dietro le quinte, tra equivoci, ripicche e rivalità, interruzioni, errori, crisi di nervi, tensioni, amorazzi, litigi e riappacificazioni.

 

Lo spettacolo, che inaugura la stagione dello Stabile, è interpretato da Valerio Binasco (che oltre a curare la regia, recita nel ruolo di Lloyd Dallas), Milvia Marigliano, Francesca Agostini, Fabrizio Contri, Andrea Di Casa, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Nicola Pannelli, Ivan Zerbinati. La traduzione è di Filippo Ottoni, le scene di Margherita Palli, i costumi di Sandra Cardini e le luci di Pasquale Mari.

 

Un’edizione della “commediaccia” di Frayn, quella firmata da Valerio Binasco (che è anche Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino), che si allontana dai toni della parodia assurda e grottesca, per addentrarsi in una lettura più profonda e poetica della ‘comicità borghese’, liberatoria dei sensi di colpa e dei sensi di responsabilità, di cui il teatro comico borghese è piacevolmente assente.

 

«Sembra che sia proprio questa la funzione “poetica” del teatro comico borghese – scrive Valerio Binasco nelle note di regia – quella di dare vita a un mondo “normale” del tutto simile al nostro, ma dove il male e il peccato non appartengono al diavolo, bensì agli uomini. Questi, essendo spiriti ingenui votati alla libertà, e infantili votati all’indulgenza, possono comportarsi in modo ingenuo e libero, seguendo i loro impulsi più “normali” senza mai incorrere nel pericolo di incontrare la loro “coscienza”, di soffrire per il giudizio altrui, o dover reggere il peso delle conseguenze dei propri atti. Atti che, va sottolineato, non hanno mai nulla di straordinario. La comicità borghese ricalca perfettamente il modello di mediocrità cui la borghesia si ispira e a cui aspira. In questa totale cancellazione di ogni profondità, che ha per conseguenza l’eliminazione del senso di colpa, e se si vuole perfino del peccato originale, io vedo una missione che ha qualcosa di più dell’intrattenimento e apre una strada insolita verso una specie di rivolta. Contro cosa? Contro la pesantezza comune del vivere».

Quando nel 1982 «Rumori fuori scena» debuttava a Londra, Milvia Marigliano si diplomava all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, aggiudicandosi la medaglia d’oro come migliore allieva. Attrice di grande esperienza e bravura, Milvia Marigliano è Dotty Otley, amica di vecchia data di Lloyd/Binasco.

Questa è la seconda volta che si confronta con Michael Frayn. La prima fu nel 2002, con «Due di noi», insieme ad Antonio Catania per la regia di Massimo Navone.  Come è stato affrontare un testo come «Rumori fuori scena», che appartiene al cento per cento al genere comico?

«Quello di Michael Frayn è un paradosso su questa strana comunità che si forma a teatro, una presa in giro molto furba e molto calcolata. Un meccanismo perfetto, minuzioso, davvero ad orologio. Inizialmente ero restia, è un testo che è stato fatto da molti, invece si è rivelato un impegno molto corposo, un lavoro duro. Valerio Binasco ci ha avvertito del rischio che il meccanismo di Frayn sovrastasse tutto, quindi non ci siamo piegati al ‘comichese’ ma ci è stato chiesto di portare in scena qualche cosa d’altro, una freschezza, una verità, una concretezza. Altrimenti non avrebbe avuto senso questa operazione fatta da un teatro nazionale e da un regista come Binasco. C’è un pensiero profondo oltre la macchina comica, la preparazione è stata seria, le prove dure. Ma il teatro vivo è sempre fatica. Il pubblico ride, certo, ma abbiamo evitato di farci prendere solo dal ritmo, dalla battuta. Binasco ha messo un pensiero, delle sfumature, trattando il testo di Frayn come un classico. Abbiamo messo nella costruzione dei personaggi, pure buffi e comici, delle verità, abbiamo messo noi stessi.»

Binasco nelle note di regia parla della comicità borghese come una rivolta contro la pesantezza del vivere…

«I personaggi di Frayn vivono un dolore, una tragedia, in un istante e subito dopo superano il tutto. Soffrono per un attimo, e passano ad altro. Sono mutilati di responsabilità, mutilati di malinconia. Personaggi superficiali, senza pesantezza, possono fare pena come tenerezza.»

E il suo di personaggio, Dotty?

«È la prima attrice e la produttrice dello spettacolo, con i suoi risparmi ha scritturato gli attori. È un personaggio che si sviluppa, entra in un nodo ed esce in un altro, anche nell’aspetto, all’inizio si presenta con una pettinatura cotonata, poi si trasforma in una pazza furiosa, una Medea delle sardine. Ha un suo percorso drammaturgico, cosa che non sempre accade nelle commedie.»

Questo è il quarto lavoro che la vede impegnata con Valerio Binasco. Jon Fosse (E la notte canta), Shakespeare (Romeo e Giulietta, Il mercante di Venezia). Un sodalizio ben consolidato…

«Mai quanto vorrei. Quello di Binasco è un teatro dell’accadere, nulla a che vedere con il teatro convenzionale dove non passa il sangue e la pancia dell’attore. Ha una capacità straordinaria di non farti mai sedere, di tenere il processo creativo sempre aperto, ti fa sentire una corda sempre tesa. Nei suoi confronti provo come una soggezione ‘artistica’, mi piace fare lo spettacolo per lui per avere il suo consenso, perché sta molto attento a quello che fai e se lo fai bene.»

Negli ultimi anni si è confrontata con il cinema, lavorando con Paolo Sorrentino (Loro 2), interpretando la madre di Stefano Cucchi in «Sulla mia pelle» di Alessio Cremonini, recitando nella commedia malinconica «L’ospite» di Duccio Chiarini.

«Vorrei fare sempre più cinema. In teatro sono sempre stata esuberante, adesso con la maturità mi piace togliere. Nel fare cinema devi togliere l’esuberanza teatrale, non c’è la necessità di arrivare con la voce all’ultima fila. Nel cinema puoi esprimere un sentimento con uno sguardo o un tocco, puoi mostrare il massimo con il minimo.»

www.teatrostabiletorino.it

Emanuele Rebuffini