Finzione, follia, realtà. Al Teatro Carignano Carlo Cecchi è “Enrico IV”

«Il teatro, il teatro nel teatro e il teatro del teatro, sono il vero tema di questo spettacolo»: già due volte Carlo Cecchi, grande interprete e regista geniale, aveva incontrato Pirandello, nel 1976 portando in scena L’Uomo, la bestia e la virtù, quindi nel 2001 con i Sei personaggi in cerca d’autore. A 150 anni dalla nascita del drammaturgo siciliano, Carlo Cecchi torna a confrontarsi con uno dei suoi testi più noti, l’«Enrico IV». E lo fa in una triplice veste: da attore protagonista, da regista e da adattatore.

L’«Enrico IV» è una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua poetica, affronta i grandi temi della maschera, dell’identità, della follia ma soprattutto del rapporto tra finzione e realtà, qui coniugato da Carlo Cecchi fino alle estreme conseguenze. Un nobile innominato, da più di vent’anni vive rinchiuso in casa vestendo i panni dell’Imperatore di Germania, inizialmente a causa della pazzia conseguente ad una caduta da cavallo durante una rievocazione in costume; poi, rinsavito, decide di continuare a fingersi matto, prima per simulazione, infine per drammatica costrizione al fine di sfuggire alla realtà meschina ed ipocrita che lo circonda. E con i Sei personaggi l’«Enrico IV» condivide non solo l’anno del debutto, il 1921, ma soprattutto il tema portante, ovvero il teatro, che non è sempre e solo forma che si oppone alla vita, ma si interseca con essa, vi si sovrappone, ne acquisisce realtà.

Lo spettacolo, prodotto da Marche Teatro, è in scena in questi giorni al Teatro Carignano (fino a domenica 25 febbraio), ed è interpretato, oltre che da Carlo Cecchi, da Angelica Ippolito (nei panni della Marchesa), Gigio Morra, Roberto Trifirò, Federico Brugnone, Davide Giordano, Dario Iubatti, Matteo Lai, Chiara Mancuso, Remo Stella.

Carlo Cecchi nel suo adattamento è intervenuto in modo radicale, con una riscrittura drastica: la tragedia in tre atti ridotta in un tragi-commedia di un unico atto, il testo sfoltito ed alleggerito, la lingua modernizzata. «Con Pirandello ho un rapporto doppio: lo considero, come tutti, il più grande autore italiano. E anche il più insopportabile. (…) Ma Pirandello è un punto focale, un nodo centrale nella tradizione del teatro italiano e va affrontato col rispetto che gli si deve. Prima di tutto ho ridotto drasticamente molte delle lunghissime battute; conseguentemente gli altri personaggi acquistano un rilievo che spesso, soverchiati dal peso delle battute del protagonista, rischiano di perdere. In alcuni dialoghi ho “tradotto” la lingua dell’originale in una lingua teatrale a noi più vicina».

E ha eliminato la causa clinica della follia di «Enrico IV»: non più una commozione cerebrale dovuta all’incidente, ma una “vocazione teatrale”, ovvero il protagonista non ha mai perso il senno, sceglie di continuare a recitare il personaggio che interpretava durante la sfilata in costume perché non vuole far parte del mondo che gli sta intorno. Si impone una continua rappresentazione, sceglie di recitare, sceglie il teatro. “Adesso alzati, va, che domani dobbiamo fare un’altra replica!”, sono le ultime parole di Cecchi/Enrico IV. Quando l’identificazione del personaggio diventa assoluta, ecco che la tragedia si fa farsa.

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Emanuele Rebuffini

@foto Matteo Delbò