Primo giorno di scuola. Classe Dirigente o Raga…?

Cara C.,
stamattina alle otto e diciotto sono passata in corso Dante, e Lei era lì come ai vecchi tempi. L’Alfieri, la nostra scuola, il Liceo Classico Vittorio Alfieri. Il semaforo durava quasi il tempo di una canzone ed io imbambolata, fissando la vetrata trasparente, ho cominciato a ripensare agli anni della scuola, a me a te, al nostro banco che ha raccolto tante domande con risate e briciole di merende infinite consumate sul sacro altare dell’Istituzione Skolastica.
L’automobilista dietro di me fa per suonare il clacson poi scorge il mio sguardo sognante e mi supera, credo che mi abbia scambiata per una madre che attende il suono della campanella per vedere l’entrata del figlio o della figlia. MADRE! IO!? Senti bello, io non sono qui per questo, io solo ieri ero qui che stavo per entrare e… quando guardo lo specchietto retrovisore con cui stavo parlando (come De Niro in Taxi driver “ehi dici a me?) mi accorgo che l’uomo se ne è andato via già da un bel pezzo.
Metto la freccia ma non giro, accosto l’auto al noto marciapiedi dell’Alfieri. Avrei giusto il tempo di un caffè con una collega ma le mando un messaggio. “Ciao ho avuto un contrattempo, un incontro con il tempo, un non so cosa sto per fare”. Scendo dall’auto e mi butto in mezzo alla folla degli studenti che stanno per entrare a scuola.
Come me nel 1990, tanti anni e mesi e minuti fa.

Correva l’anno scolastico Millenovecentonovanta-Novantuno e nel mondo era già successo di tutto. Erano già stati coniati i concetti di crisi di tutti i tipi così come quelli di fine del mondo. Crisi in Giappone l’Oms cancella l’omosessualità dalle malattie mentali i crucchi vincono i mondiali guerra del Golfo riunificazione tedesca… che anno è il 1990?

Guardo davanti a me: c’è il cancellone, torno a voltarmi verso il Po e vedo la collina.
Presagi: la playlist musicale mi sputa fuori dalla categoria cantautorato italiano “Generale dietro la collina” di De Gregori ma non riesco a concentrarmi sulla mia musica. Un ragazzino accanto a me, coetaneo di uno dei miei figli, ha i cuffioni bianchi che lasciano uscire le parole del brano di Madame “Solo tu mi hai capito”. Inizio a canticchiare, lui mi guarda sconvolto e si allontana velocemente.

E mi immergo nel mio nostro C., primo giorno di scuola.
Sono arrivata un’ora prima per osservare chi e come.
Ero lì e aspettavo l’apertura delle porte del futuro con il walkman nero e le cuffiette, non c’erano i cuffioni, quelli li aveva solo Maurizio Seimandi, supertelegattone.
Era autunno e avevo il giubbotto di jeans e lo zaino Invicta su una spalla. Nell’attesa guardavo la collina. Ti ricordi che noi si entrava alle otto e trenta per aspettare quelli chescendevanodallacollina?
Io non sapevo chi fossero quellichescendevanodallacollina ma tremavo di emozione all’idea di incontrarli. Io venivo da Lingotto e fino ad allora mi ero spinta fuori dal mio seminato solo un isolato dopo piazza Carducci dove potevo incontrare quellidiviamadama. Quando c’era spirito di ribellione cioè la mia amica Giorgia alta e più grande di me di un anno, potevo sfidare l’ignoto verso quellidiviaventimiglia.
QuellidiPiazzaBengasi insieme a quellidiMirafiori restavano nella zona rossa tracciata da mia madre sulla città, e per me, in quel momento, erano solo leggende metropolitane irraggiungibili e inarrivabili.
Armata di walkman nero ho varcato la soglia dell’Alfieri, non conoscevo quasi nessuno, solo un’amica di un anno più grande che era già in quinta ginnasio e sarebbe entrata a scuola il giorno dopo.
Aperti i cancelli mi ritrovai nella selva oscura e quel discorso mi arrivò dritto in faccia come a una parata presidenziale.

C. tutto è cominciato da lì, dal discorso di quella donna che aveva una stampella di ferro e la puntava verso di noi, contro il nostro muso, noi il suo pubblico scelto e addestrato.
Shakespeariana nelle movenze e nei testi. Anni dopo alla scuola di teatro la portai in un’improvvisazione: “Il mio regno per una stampella”. La stampella come scettro.
La Preside (ora si dice Dirigente scolastica) non ci puntava il dito addosso ma quella gamba di ferro. Sputava, non solo sentenze, mi ricordò subito Queen Elisabeth o Margaretta la Thatcher.
Si sono aperti i cancelli e poi le porte del purgatorio e ci siamo trovate in un corridoio. Marciando marziali siamo entrate nella palestra. Brividi di freddo, cercavo la mia musica nel walkman, quella musicassetta mi aveva già salvata da tutto il mondo delle Medie ed ora avrebbe sconfitto l’universo mondo del Liceo.
Era una palestra di una scuola ed eravamo tutti lì in attesa del Verbo: assegnazioni, classi, sezioni.
Io cercavo un bro’, come dicono i miei figli. Un sodale con cui sghignazzare di quel mondo antico in cui ci stavano buttando, un coetaneo che strabuzzasse gli occhi e trattenesse una risata muta all’ennesimo schiarimento di voce della Preside ed ho trovato te.

C. ti stavo cercando in tutti quegli occhi pieni di trepidante attesa del futuro, mi sentivo come il mio pesce rosso che girava nell’ampolla senza tentare il salto.
La palestra mi girava tutto intorno, ed io con lo sguardo la scrutavo cercando la via d’uscita per una fuga durante il primo intervallo.
Si è schiarita la voce gracchiante. Ma perché mai la vita è fatta di personaggi così scontati?! Non appena la vidi prendere la rincorsa vocale per emettere il primo suono, sapevo che il timbro della voce mi sarebbe risultato fastidioso come unghie che graffiano i vetri.
Il discorso arrivò da che pulpito! Sputacchiava arroganza dagli angoli della bocca. Mi ricordava una madre superiora. Ma qui non siamo nella scuola pubblica? Dove sono finita? Aiuto! Si sporgeva dal trespolo improvvisato, una pedana della palestra allestita a palco.
C., tu ti ricordi? Vero? Te lo ricordi?
Eravamo disposti per file, non ce lo avevano imposto, ma alla vista dell’archetipo “vecchiamadresuperiora”, il nostro Dna ci prese a calci nel culo e ci trasformò in opliti, facendo file perfette e OP OP OP ci trovammo a marciare come soldati.
Il discorso presidenziale: “Avete una grande responsabilità, sarete la FUTURA CLASSE DIRIGENTE del paese”
Ahahahahahah!!!!! usciva dalla mia testa a forma di nuvola dei fumetti.
Ho iniziato a fissare le mie scarpe Superga di tela fine, cercando un appiglio per non scoppiare a ridere.
Lei continuava ad alzare i toni, la voce divenne acuta mentre declamava l’orazione funebre di una generazione.
La nausea mi prese la bocca dello stomaco e per non vomitare sulla scarpa ortopedica della donna finsi un improvviso attacco di tosse. Nella mia testa c’era un motivo (musica) e non una motivazione per stare in fila ferma immobile di fronte alla donna.
Ti ricordi C. ? Ad un certo punto il conato di tosse si è trasformato nella intro di un pezzo, ho iniziato a canticchiare come un ventriloquo: “Notti magiche inseguendo un goal, sotto il cielo di un’estate italiana, e negli occhi tuoi voglia di vincere, un’estate, un’avventura in più”.

E lì che la fratellanza generazionale, quella che oggi si chiama Raga, mi ha salvata da una sospensione, messa alla porta ancora prima di iniziare “e già ti fai conoscere!!!” (la voce della madre nella testa)
Ma tu mi sei corsa in aiuto senza pensarci due volte, per quale motivo?
Per l’incondizionato amore generazionale, quello dove siamo sulla stessa barca, un Titanic del tempo e allora aiutiamoci e tentiamo di buttarci sulle scialuppe e non di affondare con la nave e tutto l’iceberg.
E così hai iniziato anche tu a tossire per coprire la mia stupidità e tutta un’aula magna ti ha seguita a ruota, come se fossimo una banda di tisici.
Il professore di Educazione fisica ci ha subito individuate e messe in salvo dallo sguardo gelido di Margaretta che aveva già capito con chi avrebbe avuto a che fare per i prossimi cinque anni: la futura classe dirigente, nella sua espressione migliore quella dei Fra’ dei Bro’ dei Raga.
Compagnia, combriccola, comitiva, brigata, banda.

La combriccola del Blasco

Elena

Cara E.,
compagna di banco compagna di fila compagna di attimi e momenti che furono e sempre saranno.

Ma veramente tu ricordi tutta questa roba?
“Invece io ricordo solo il primo bacio che mi hai dato tu” mi verrebbe da dire alla Vecchioni, e quel tu era un ragazzo dagli occhi azzurri rotondi come il mondo che sognavo e che stava al piano sopra il nostro, ma questo l’avrei scoperto mesi dopo quel primo giorno di cui tu rammenti ogni parola e io ricordo solo colori, suoni, odori, sensazioni.

Bianco: il colore della t-shirt scelta per dare il via a quell’avventura che non volevo e in cui Madre mi aveva infilata perché “esistono due scuole, il liceo classico e il liceo scientifico e non direi che sei una da matematica!”.
L’abito conta, l’abbiamo sempre saputo, e se è vero che la prima impressione si forma in 7 secondi, al liceo, classico poi, ne bastano 3 per finire nella schiera degli sfigati ed è un rischio che a 14 anni non puoi correre. Men che meno se le tue amiche sono tutte dell’Upper Side cittadino e le felpe Best Company le sprecano giocando a tennis. Devi camminare al passo, per quanto poco te ne freghi, sei nel vortice e affondare è un attimo.

La scelta, quindi, era stata un parto plurigemellare contraddistinto da una serie di considerazioni essenziali: 1. qualcosa di non troppo vistoso, ma nemmeno troppo anonimo; 2. qualcosa che potesse resistere al rischio (o segreta speranza al fine di racconti futuri e risate assicurate) di venire schiumati, vittime della caccia al primino; 3. qualcosa di comodo, che chissà dove ci mettono per queste prime tre ore di accoglienza o supplizio che sarà.

Rosso-ansia: il tempo trascorso tra l’idea e la scelta definitiva dell’outfit (oggi si dice così, mia figlia dice così, la tua?), tempo di valutazioni con le sorelle più grandi che sono sempre fonte di buoni consigli o pessime opinioni, tempo di telefonate chilometriche con le amiche per capire se così poteva filare liscio e come loro pensavano di cavarsela, tempo di arrovellamenti personali e privatissimi su singoli dettagli del perché e del per come potesse andare bene quello o quell’altro, tempo di minacce di Madre che tuonava possibili punizioni corporali se avessi continuato a tenere occupato il telefono di casa con quelle futili assurdità.
Risultato: t-shirt bianca non notabile e jeans Levis classici, ai piedi Superga blu degnamente usurate.

Così, si va. Anzi si andò, per quella che fu una città dolente per molti versi, ma fu anche una “strada dorada” fatta di sogni, emozioni, sconfitte, delusioni, distruzione e ricostruzione e molti lampi di meraviglia sotto il cielo dell’adolescenza.

Blu: il cielo di quel primo giorno che fu un gran calderone di sensazioni molteplici, paure, batticuore, odori, occhi che si incrociano e fuggono, capelli che ondeggiano, colori di magliette giacche felpe cappelli, voci in sottofondo, informazioni sfuggite e dettagli registrati, banchi da scegliere e facce da scrutare, occhi negli occhi con le vecchie amiche delle medie e la sensazione che tutto improvvisamente stesse cambiando ad un ritmo per cui, forse, non eravamo attrezzati tutti allo stesso modo.

Mi percorrevano una leggera nausea e un forte senso di oppressione, un’eccitazione generata dalla novità che mi attraeva e mi respingeva al tempo stesso, un desiderio sotteso di conoscere tutto in un solo momento e mangiarmi voracemente ogni tassello di quel nuovo mondo e al tempo stesso la sensazione palpabile di essere fuori luogo, fuori posto, fuori tutto.

Quei cinque piani di mattoni rossi dotati di finestre che aprivano lo sguardo sul grande corso cittadino e circondati di alberi da ogni lato, sarebbero stati la nostra casa per cinque anni? Quei venti e più derelitti come me seduti con lo sguardo perso tra le file dei banchi avrebbero accompagnato i prossimi 1000 giorni della nostra vita? Quella palestra immensa dove ci avevano riuniti per l’accoglienza sarebbe stata la sede delle nostre vittorie e sconfitte ginniche? Quella marea umana che brulicava per i piani vociando come in uno stadio ci avrebbe trascinato in un flusso fisico e di pensiero ogni giorno per sei giorni a settimana?

Così è, se ti pare e pure se non ti pare cara E., e così fu.
Ma questa è un’altra storia. Oggi, quel che fu è solo l’inizio di quel che sarà.

La storia siamo noi

 Chiara

Un commento su “Primo giorno di scuola. Classe Dirigente o Raga…?”

  1. Stessa città, qualche anno prima, nella palestra di un altro storico liceo classico .E anche in quell’occasione, una preside che sentenzia “ sarete la FUTURA CLASSE DIRIGENTE del paese”.
    Che dire??Tra il dispotico ed il distopico!
    Bentrovate!Vi leggerò con piacere.

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