Approfitto della momentanea tregua sul fronte TAV per schiarirmi un po’ le idee.
Giovedì 8 marzo è comparso sul sito del Governo Italiano un dossier sul progetto TAV Torino-Lione: 14 punti in cui si parla di importanza strategica, di costi, benefici, ricadute economiche, sociali e ambientali, sostenibilità energetica, rischi geologici e rapporti con il territorio.
Bene, grazie, ci voleva. Perché, se è vero che c’erano già i quaderni dell’Osservatorio, questi famosi sette tomi rischiano di rubare il primato di opera più citata e meno letta alla Ricerca del tempo perduto di Proust (sette volumi anche quella…). Ora si può anche continuare a discutere, ma almeno ci sono delle risposte chiare sulle principali questioni oggetto della protesta.
Forse è utile un rapido riassunto delle puntate precedenti.
La storia della TAV comincia 20 anni fa, anzi, di più, se si considera che il primo invito ad unirsi alla linea francese Tgv arriva nel 1989. Poi il progetto è stato più volte rivisto e modificato, come ben riassume la storia per tappe pubblicata su linkiesta.
La battaglia no-Tav si è scaldata fino diventare incandescente negli ultimi mesi, con l’approssimarsi dell’apertura dei cantieri, ora in fase preliminare (tra maggio e giugno dovrebbero partire gli scavi veri e propri della galleria geognostica della Maddalena).
È indubbio che l’opposizione più forte parta dal disagio dei residenti di fronte alla prospettiva di dieci anni di cantiere, ma sarebbe ingiusto ridurre le ragioni dei no-Tav al semplice Nimby (“Not in my back yard”, come dicono gli americani). Lo dimostra l’appello rivolto al Presidente del Consiglio da 360 docenti, ricercatori e professionisti, tra cui spicca Luca Mercalli, preoccupati per gli alti costi e le ricadute ambientali dell’opera, a fronte di benefici incerti (si veda anche il dibattito su pro e contro proposto da Il Fatto Quotidiano).
Come contraltare suggerisco un articolo, apparso sul Post qualche mese fa, di Filippo Zuliani, fisico e ingegnere esperto in energia e trasporti. Al termine di una puntuale valutazione energetica e di un’analisi su trasporti e traffico merci, Zuliani dice una cosa che stranamente (forse per effetto di un’inconscia rimozione collettiva?) non si sente dire spesso nell’ambito del dibattito sulla Tav: “Il petrolio costa sempre più e se ne trova sempre meno, tanto che gli Stati Uniti hanno annunciato che metteranno mano alle riserve strategiche”. Insomma, inutile preoccuparsi di come convincere o costringere il trasporto merci a spostarsi su rotaia, perché tra 15 anni la benzina costerà così tanto che il travaso sarà spontaneo.
Ultima, ma non meno importante, è arrivata la voce di Roberto Saviano a mettere in guardia contro il pericolo di infiltrazioni mafiose nei cantieri della Tav: “Prima dei veleni, delle polveri, della fine del turismo, della spesa esorbitante – ha scritto sulle pagine di Repubblica – prima di tutte le analisi che in questi giorni vengono discusse bisognerebbe porsi un problema di sicurezza del sistema economico”. Problema certo non da poco, ma bisogna per forza buttare via il bambino con l’acqua sporca?
Le risposte istituzionali si sono fatte un po’ attendere, ma alla fine sono arrivate.
Il primo è stato Mario Virano, presidente dell’Osservatorio per la Tav Torino-Lione, che, intervistato da Lucia Annunziata su Rai3, ha spiegato con chiarezza i principali nodi del progetto.
Un paio di giorni più tardi, il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera ha rilasciato un’intervista alla Stampa (qui il testo integrale), ribadendo come l’opera sia “necessaria e strategica per l’Italia” e sottolineando tra l’altro che “dei 112 Comuni, tra Italia e Francia, interessati dall’intera opera solo una dozzina hanno posizione contraria e sono tra quelli meno toccati”. Infine, è arrivato il già citato dossier sul sito del Governo.
A questo punto scopro le carte. L’origine di questo mio “ripasso” per scritto sulla questione Tav è un articolo di Adriano Sofri apparso su Repubblica del 3 marzo, in cui si avanza la proposta – provocatoria, sì, ma non del tutto – di fare un referendum per capire quanti davvero siano contro la Tav. Posto che un referendum non lo vuole nessuno (neanche i no-Tav, che sanno di essere una minoranza), mi sono chiesta che cosa risponderei io a un eventuale quesito referendario che, auspicabilmente meno astruso del solito, potrebbe suonare così: “Tav, ne vale la pena?”.
Questo in sintesi il mio ragionamento:
1) Il movimento no-Tav mette in evidenza un ormai cronico problema di sfiducia nelle istituzioni. Sfiducia che, peraltro, governi e amministrazioni di vario colore si sono guadagnata per anni sul campo con un operato spesso nebuloso.
2) L’obiezione a mio avviso più grave e rilevante contro la Tav – e quella che più mi colpì già nelle prime assemblee a cui partecipai nel ’98-’99 – riguardava i rischi geologici (presenza di uranio e amianto) durante lo scavo del tunnel. A seguito di quelle osservazioni, il tracciato ha subito importanti modifiche e, dai vari sondaggi conoscitivi effettuati, non risulta una presenza significativa di uranio e solo una presenza minima e sporadica di amianto. Inoltre, ci assicurano, gli scavi verranno costantemente monitorati per rilevare eventuali polveri d’amianto e verranno adottate comunque tutte le misure di sicurezza.
Certo, bisogna fidarsi (e questo ci riporta al punto 1), ma se la mettiamo così, la stessa questione si pone per quasi ogni aspetto della vita in una società moderna.
3) I costi dell’opera sono enormi. “Low cost” o no, e anche con i finanziamenti europei, i quasi 3 miliardi di spesa che spettano all’Italia solo in questa prima fase (rimane da vedere se si farà anche il resto) sono comunque tanti per un paese che tira la cinghia per far quadrare il debito. Tuttavia ci sono benefici che vanno al di là dell’utile contabile. E qui arriviamo all’ultimo punto.
4) Una volta che la linea funzionerà a regime, tempi di percorrenza dimezzati per i passeggeri e riduzione di tempi e costi per il trasporto merci non porteranno solo vantaggi economici.
Il trasferimento di una buona fetta di traffico dalla strada alla rotaia andrà innanzitutto a vantaggio della sicurezza collettiva, con una diminuzione degli incidenti stradali. Ma soprattutto il treno (e quelli di nuova generazione ancora di più) sul piano dell’eco-sostenibilità batte aereo, auto e bus 10 a 0. I nuovi convogli super rapidi hanno in media un’emissione di 17 grammi di Co2 per passeggero al km, contro i 30 di un bus, i 115 di un’automobile e i 153 di un aereo.
Se prendiamo sul serio i protocolli di Kyoto e se vogliamo affrontare davvero il picco del petrolio, mi sembra inevitabile prepararsi con delle infrastrutture adatte, anche a fronte di ingenti costi iniziali.
Considerato tutto ciò, mi rifaccio la domanda: ne vale la pena?
Sulla scheda dell’ipotetico referendum, oggi, metterei la mia crocetta sul sì.