Un cucciolo di beagle sospeso sul filo spinato guarda in basso, spaventato e mite, verso le mani tese che aspettano di accoglierlo. Chissà come fa a fidarsi ancora di quelle mani di uomo, dopo aver sperimentato tante volte quelle dei suoi aguzzini? Solo un cane può avere una tale incrollabile, ingenua, commovente fiducia verso il genere umano…
L’immagine-simbolo della liberazione dei cani di Green Hill mi ha fatto ripensare a come una grandissima scrittrice italiana definiva gli animali: i Bambini della creazione.
Sono parole di Anna Maria Ortese, autrice atipica e visionaria, anche per questo rimasta sempre un po’ a margine del panorama letterario italiano, ma tanto più preziosa perché portatrice di uno stile autenticamente raro e “incontaminato” e di temi non comuni per la cultura nostrana. Tutta la sua opera è dedicata agli umili, ai Popoli Muti, alle creature oggetto di prevaricazione e violenza, che non hanno voce per opporsi all’ingiustizia: i bambini, i poveri, le Bestie (con la maiuscola, ché “anche le Bestie sono popoli e persone”).
“Bambini della creazione” è una bellissima definizione, densa ed evocativa: rimanda all’innocenza, alla bellezza divina, e insieme ricorda la responsabilità che l’uomo, autoproclamatosi padrone della Terra, ha verso queste creature. I Bambini vanno protetti, non imprigionati e sfruttati. Eppure, si sa, l’innocenza è continuamente martirizzata e la bellezza oltraggiata.
In questi giorni i fatti di Green Hill hanno riportato all’attenzione dei media il dibattito sulla vivisezione e, più in generale, sullo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo. Credo, purtroppo, che le durissime immagini di atrocità e sevizie che girano in rete producano spesso un effetto contrario a quello che si augurano: portano a distogliere lo sguardo, e soprattutto il pensiero, da ciò che denunciano. Non che sia giusto, ma è umano. Io stessa, lo ammetto, non sono mai riuscita a finire L’imperatrice nuda di Hans Ruesch, testo cardine per la lotta anti-vivisezione.
Vorrei perciò provare con un filtro diverso, quello della letteratura. L’immagine è altrettanto forte, e cattura in pieno tutto il dolore e l’eterna sopportazione degli animali nelle mani degli uomini, ma la poesia la rende in qualche modo affrontabile e, nello stesso tempo, incancellabile.
Il brano è tratto da un racconto, o meglio, una “visione” della Ortese. Con il consiglio, se non la conoscete, di leggere tutta la sua opera (o almeno “Il cardillo addolorato” e “L’Iguana”).
C’erano allora, invece di macchine, carri e carretti, spesso stracolmi di verdure o altri carichi. Un solo cavallo reggeva tutto. Erano bestie che si trascinavano a stento, sempre a testa bassa, sfiancate e il corpo coperto di macchie rosse: le piaghe lasciate dalle incisioni della frusta. Erano tante, queste piaghe – a volte cicatrizzate, a volte no, ora ingrigite, ora ancora di fuoco – che il cavallo, ogni tanto, quasi scosso da un brivido, si voltava a cercarle. Doveva sembrargli impossibile di doverle portare sempre, sempre, senza un aiuto, il minimo sollievo.
Uno di questi cavalli, una mattina intorno agli Anni Trenta, percorreva, chiuso tra due stanghe, un vicolo circondato da giardini di aerea bellezza. Ma non andava avanti che a stento; anzi, non andava mai avanti. Il suo carico, alto come una casa, era disumano. La testa del cavallo, abbassata, scarna e sensibile – come pensierosa – si volgeva continuamente a guardare verso i fianchi quelle orride piaghe. Gli occhi sembravano pieni di lacrime, ma forse era solo un colare di umore, perché si dice che i cavalli non piangono. Non avevo ancora visto l’Umanità seduta su un martirio. A un certo punto la vidi, sotto forma di un giovane carrettiere di cui ricordo solo il vigore, l’immobilità, la tracotanza, il berretto e il braccio (con la terribile frusta) alzato. Ne ricordo anche il sorriso, fermo su me, di traverso, in una espressione di incredulità e di beffa. «Così» sembrava pensare «non si va avanti. Ora scendiamo, e diamo a tutti e due» (il Due ero io) «una lezione». Ed ecco cosa seguì, prima ancora che io mi fossi scostata (ma non mi scostai, o non feci in tempo).
Il carrettiere scese con un balzo a terra, ma non usò la frusta, che aveva sotto il braccio. Prese, sollevò, avvicinò a sé, con due mani, la grande faccia gentile del cavallo, la guardò negli occhi, e in quegli occhi, alla fine, con folle violenza, sputò.
Io ripresi il mio cammino, dopo un momento, mentre anche il carro si muoveva, col suo carico di martirio e ingiurie, per il vicolo infinito, e ancora quei vortici della bacchetta di fuoco. Non ricordo altro. Ma pensai a lungo (diciamo mezzo secolo e più) a quel cavallo, e, devo aggiungere, l’inferno di questo secolo non mi fu ignoto né estraneo. Vidi tutti i giornali, dagli Anni Quaranta in poi, e fui testimone di molte sofferenze e disastri. Ma non dimenticai quel cavallo.
Ancora adesso, dopo forse sessant’anni, leggo molti giornali, e sono testimone, per lo meno nel pensiero, la notte, quando cantano solo i tubi dell’acqua, in cucina, e la pioggia scorre sul selciato, dei disastri e il dolore terrestre: Ma non dimentico quel cavallo.(A.M. Ortese, “Bambini della creazione” in “In sonno in veglia”, Adelphi 1987)