Il progetto Italiani di frontiera

Un progetto importante

Italiani di Frontiera è il progetto multimediale di  Roberto Bonzio che ha viaggiato per un anno negli USA, e in Silicon Valley in particolare, per trovare tracce e raccontare storie di innovatori, ricercatori, successi imprenditoriali di italiani di frontiera.

Tutto ebbe inizio  quando Roberto Bonzio chiese a se stesso se sarebbe stato in grado di sopravvivere come giornalista freelance in aspettativa negli Usa, con moglie e figli al seguito.

Italiani di Frontiera non resterà solo un blog, ma nell’autunno uscirà un libro: non una semplice raccolta antologica ma un libro di viaggi attraversando i luoghi della Silicon Valley, alla ricerca di nuove scommesse.

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Mind the Bridge 2008/09

Dal 4 luglio al 4 settembre 2008 si accettano Business Plan per l’edizione 2008/09 della Mind the Bridge Business Plan Competition.

Il programma di quest’annno prevede anche un Venture Camp a Venezia il 10 e 11 ottobre in cui i progetti semi-finalisti avranno la possibilita’ di presentare a potenziali investitori.

La scadenza per la presentazione delle domande è il prossimo 4 settembre 2008. Il regolamento per partecipare all’iniziativa, promossa con lo scopo di promuovere le relazioni economiche tra Italia e USA, prevede che la società sia già costituita, che l’idea imprenditoriale sia tecnologicamente innovativa e pronta per il mercato.

Capitani coraggiosi low tech

Luca Tremolada sul Sole 24 Ore

Come si misura l’innovazione? Formuliamo meglio la domanda: si misura la capacità creativa di un Paese? La risposta non è banale: finora non esiste un numero, un indice che dir si voglia capace in modo univoco di spiegare perché l’Irlanda è diventata in pochissimi anni una fucina di idee. O perché le eccellenze continuano ad attecchire a Stanford (Usa) nonostante gli ingenti investimenti in Dubai o nelle università cinesi. Insomma, perché finora nessuna formula statistica è stata capace di fotografare in modo univoco la crescita di innovazione di un Paese?

La colpa naturalmente non è del dato. Il numero di brevetti, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, le tasse universitarie, il numero di laureati, la vocazione tecnologica delle industrie e delle imprese nazionali possono essere sintetizzati in coefficienti. Al dato statistico però spesso ne va aggiunto uno più qualitativo che descrive, per esempio, i vincoli della burocrazia per aprire una impresa, l’atteggiamento dello Stato verso chi fa impresa, l’attenzione del pubblico verso i nuovi prodotti. Dall’incrocio di queste informazioni, si può arrivare solo a intuire perché un Paese innovi meno di altri. Ma cosa ben diversa è capire per quale motivo fuori dal Mit di Boston all’ora di colazione gli studenti passino il loro tempo fantasticando di quando diventeranno imprenditori. Mentre, per esempio in Italia, la chiacchiera verte più spesso sull’agognata assunzione in un aziendone capace di garantire il minimo “sindacale” in termini di prestigio e gratificazione professionale.

Risulta altrettando difficile, leggendo le statistiche, capire perché negli Stati Uniti aver fallito con la propria impresa non è una notizia cattiva in sé e neppure qualche cosa di cui vergognarsi per il resto dei propri giorni. Addirittura nella Silicon Valley, la storica culla di imprenditorialità hi-tech, per gli uffici del personale un fallimento è un indicatore positivo perché mostra la propensione a credere nelle proprie capacità del candidato. Per spiegare queste diverse categorie del pensiero occorre richiamarsi a fattori culturali stratificati nel tempo, a influenze che danno forma all’immaginario collettivo di un Paese. Alla percezione che abbiamo di noi e della nostra capacità di inventare nuovi prodotti e servizi. Proprio in questa prospettiva è interessante il rapporto Gem (Global Entrepreneurship Monitor) curato da EntER, Centro di ricerca della Bocconi.

Dal 1999 questo progetto contribuisce al dibattito sulla misurazione dell’innovazione, partendo dall’imprenditore, o meglio dalla percezione che ha di sé e del proprio Paese chi intraprende questa “carriera”. In sostanza, il rapporto coordinato per l’Italia dall’Università Bocconi studia le motivazioni che ci spingono a rischiare per aprire una nuova attività, attraverso il Tea (total early-stage activity o attività early-stage/iniziale totale), un indicatore che misura la percentuale di adulti (di età 18-64 anni) che hanno dato vita a nuove attività.

Dallo studio emerge un quadro che in parte conosciamo bene. Siamo, o meglio ci percepiamo, creativi, capaci di generare business e di presentare sul mercato nuovi prodotti (si vedano la tabelle qui a fianco, ndr). Per quanto riguarda l’Italia, nel 2007 il Tea è del 5%, ovvero cinque persone su cento hanno dato vita alla creazione di un nuovo business. Il dato ci pone poco al di sotto della media Europea (5,9%).

Fin qui tutto positivo e, tra alti e bassi, anche il confronto con gli altri Paesi ci pone poco sotto la media. Purtoppo, i segnali diventano più foschi se si ragiona in termini tecnologici.
I dati mostrano che in Italia, a differenza di altri Paesi, le nuove iniziative imprenditoriali hanno un basso contenuto tecnologico. I prodotti sono low tech. Imputato principale, secondo lo studio, la difficoltà di accesso alle risorse finanziarie. Da ciò discende anche la bassa aspettativa di esportazione che hanno i nostri nuovi imprenditori sui loro prodotti. «Tuttavia – precisa Guido Corbetta, direttore di EntER – è bene tenere presente la vocazione poco manifatturiera della nostra industria. Più interessante è il fatto che i nosti imprenditori si sentono più inventori, più creativi. Sicuramente meno tecnologici e innovatori».

L'innovazione del distretto

Riccardo Viale Presidente della Fondazione Rosselli sul Sole 24 Ore

Perché alcune aree sono più innovative di altre? Perché sembra esserci una propensione dei territori verso certe specializzazioni tecnologiche? Perché il venture capital prospera in alcune regioni e non in altre, pur all’apparenza simili?

Varie sono le domande di questo tipo che hanno come denominatore comune aree territoriali sempre più ristrette.Mentre anni fa il centro dell’attenzione di analisti e “policy makers” erano gli Stati nazionali, ora il baricentro della dinamica innovativa e di sviluppo industriale si è spostata verso le grandi aree regionali e subregionali.

Dai dati presentati, recentemente, a un convegno dell’Ocse, a Valencia, emerge che la globalizzazione ha agito sullo sviluppo tecnologico, dal 1998 al 2003, in modo diverso nel caso si tratti di nazioni odi regioni.Le aree regionali che presentano vantaggi competitivi iniziali, sotto forma di migliore capitale umano, sociale, istituzionale ed economico, tendono a crescere sempre di più rispetto a quelle meno dotate. L’Italia, da questo punto di vista, è uno degli esempi più emblematici. Essa presenta fra i Paesi Ocse uno dei range maggiori di differenza regionale, tra Nord e Sud,e questa forbice invece di diminuire tende ad accentuarsi.

Questidati,chetestimonianol’affermarsidelterritoriocomebaricentrodello sviluppo tecnologico, hanno, però, il difetto di fotografare solo la parte emersa dell’iceberg. Non riescono a cogliere, invece, i fattori causali più rilevanti che determinano le performance innovative territoriali.Sono, infatti, le condizioni istituzionali e culturali che determinano le propensioni individuali a innovare. Ad esempio si prenda in considerazione il successo di Silicon Valley in California.

Le condizioni per il fiorire di una fitta rete sociale di piccole imprese altamente innovative e dinamiche interagenti con centri di ricerca e società finanziarie vengono rese possibili da situazioni istituzionali peculiari, come la costruzione ex novo di un sistema industriale basato su microelettronica e network computing, presenza di alcune fra le migliori università del mondo dedite al trasferimento tecnologico, diffusione in larga scala del venture capital, mercato del lavoro altamente flessibile e aperto alla immigrazione di talenti, politiche di finanziamento statale e federale molto generose nei confronti della ricerca universitaria.

A cui si aggiungono fattori culturali decisivi come una forte spinta all’imprenditorialità individuale, diffuso orientamento positivo nei confronti dell’assunzione di rischio, tolleranza se non valutazione positiva dei casi di insuccesso, considerazione positiva nei confronti di stili di vita improntati allo stress,alla competizione ealla polarizzazione sul lavoro.

Ma anche universi ontologici, principi epistemologici, stili linguistici, gusti estetici, valori etici e identità etnico antropologiche che spesso accomunano e facilitano la comunicazione tra gli attori della rete. La dimensione locale dell’innovazione, che illustra il successo di Silicon Valley,spiega anche vari insuccessi, come quello del mancato sviluppo del computer da parte della Xerox. Mentre i suoi laboratori di Palo Alto, in California del nord, avevano prodotto delle invenzioni epocali come il mouse, i sistemi di interfaccia grafica, gli editordi testo, l’Ethernet, l’azienda madre localizzata nello Stato di New York fu incapace di capire e sfruttare il vantaggio competitivo potenziale rappresentato da queste conoscenze tecnologiche. Non solo la distanza geografica ma soprattutto quella culturale, cognitiva e istituzionale rendevano la realtà di ricerca californiana e quella industriale e burocratica di New York due mondi che non comunicavano. Come è noto imprese californiane, vicine ai laboratori Xerox, che parlavano la loro stessa lingua ed erano imbevute degli stessi valori, furono in grado di capire e sfruttare in tempi rapidi le invenzioni.

Apple e Microsoft sono gli esempi virtuosi di questo “furto”! Per concludere, perché le condizioni locali di tipo culturale e istituzionale sono così importanti per favorire i processi di innovazione? Principalmente per due ordini di motivi: perché stimolano l’impresa a superare le inerzie della “dipendenza dal sentiero” tradizionale di tipo tecnologico e organizzativo; perché favoriscono decisioni e azioni individuali a forte tasso di creatività e rischio. In altre parole ciò che caratterizza questi territori “innogenetici”, nei confronti dell’impresa, è la loro capacità di creare con essa uno scambio continuo bidirezionale e creativo di informazione e conoscenza.

L’impresa trasferisce all’esterno domande di innovazione, di capitale umano e finanziario, di informazione sul mercato e sulla concorrenza. L’ambiente esterno risponde fornendo nuove conoscenze innovative, nuovo personale di talento, finanza mirata all’innovazione, informazioni sulla psicologia del consumatore,sulle opportunità del mercato e”warning” su possibili concorrenti.

Perché gli incentivi istituzionali e la conoscenza possano fluire velocemente fra i vari soggetti sono necessari reti sociali e di comunicazione dense e veloci.Quando queste non siano generate spontaneamente, come nel caso di Silicon Valley, emerge il ruolo ineludibile della governance pubblica del territorio. Soprattutto essa può individuare e promuovere le innovazioni istituzionali, i formati organizzativi e i valori culturali che possano favorire, al meglio, lo scambio e l’interazione finalizzata a stimolare l’innovazione.

In questi ultimi anni in alcune regioni come il Piemonte, la Lombardia e l’Emilia Romagna sono stati fatti vari esperimenti di questo tipo che hanno avuto un relativo successo. Per rimanere al Piemonte, il distretto tecnologico Torino Wireless, la Cittadella Politecnica e l’incubatore del Politecnico di Torino «I3P» che ha già più di 100 imprese incubate,il bando internazionale per l’attrazione di talenti, quello sulle “converging technologies” e il rilancio dei parchi tecnologici a cominciare da quello agroalimentare di Cuneo sono esempi da seguire anche per il resto del Paese.