Luca Tremolada sul Sole 24 Ore
Come si misura l’innovazione? Formuliamo meglio la domanda: si misura la capacità creativa di un Paese? La risposta non è banale: finora non esiste un numero, un indice che dir si voglia capace in modo univoco di spiegare perché l’Irlanda è diventata in pochissimi anni una fucina di idee. O perché le eccellenze continuano ad attecchire a Stanford (Usa) nonostante gli ingenti investimenti in Dubai o nelle università cinesi. Insomma, perché finora nessuna formula statistica è stata capace di fotografare in modo univoco la crescita di innovazione di un Paese?
La colpa naturalmente non è del dato. Il numero di brevetti, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, le tasse universitarie, il numero di laureati, la vocazione tecnologica delle industrie e delle imprese nazionali possono essere sintetizzati in coefficienti. Al dato statistico però spesso ne va aggiunto uno più qualitativo che descrive, per esempio, i vincoli della burocrazia per aprire una impresa, l’atteggiamento dello Stato verso chi fa impresa, l’attenzione del pubblico verso i nuovi prodotti. Dall’incrocio di queste informazioni, si può arrivare solo a intuire perché un Paese innovi meno di altri. Ma cosa ben diversa è capire per quale motivo fuori dal Mit di Boston all’ora di colazione gli studenti passino il loro tempo fantasticando di quando diventeranno imprenditori. Mentre, per esempio in Italia, la chiacchiera verte più spesso sull’agognata assunzione in un aziendone capace di garantire il minimo “sindacale” in termini di prestigio e gratificazione professionale.
Risulta altrettando difficile, leggendo le statistiche, capire perché negli Stati Uniti aver fallito con la propria impresa non è una notizia cattiva in sé e neppure qualche cosa di cui vergognarsi per il resto dei propri giorni. Addirittura nella Silicon Valley, la storica culla di imprenditorialità hi-tech, per gli uffici del personale un fallimento è un indicatore positivo perché mostra la propensione a credere nelle proprie capacità del candidato. Per spiegare queste diverse categorie del pensiero occorre richiamarsi a fattori culturali stratificati nel tempo, a influenze che danno forma all’immaginario collettivo di un Paese. Alla percezione che abbiamo di noi e della nostra capacità di inventare nuovi prodotti e servizi. Proprio in questa prospettiva è interessante il rapporto Gem (Global Entrepreneurship Monitor) curato da EntER, Centro di ricerca della Bocconi.
Dal 1999 questo progetto contribuisce al dibattito sulla misurazione dell’innovazione, partendo dall’imprenditore, o meglio dalla percezione che ha di sé e del proprio Paese chi intraprende questa “carriera”. In sostanza, il rapporto coordinato per l’Italia dall’Università Bocconi studia le motivazioni che ci spingono a rischiare per aprire una nuova attività, attraverso il Tea (total early-stage activity o attività early-stage/iniziale totale), un indicatore che misura la percentuale di adulti (di età 18-64 anni) che hanno dato vita a nuove attività.
Dallo studio emerge un quadro che in parte conosciamo bene. Siamo, o meglio ci percepiamo, creativi, capaci di generare business e di presentare sul mercato nuovi prodotti (si vedano la tabelle qui a fianco, ndr). Per quanto riguarda l’Italia, nel 2007 il Tea è del 5%, ovvero cinque persone su cento hanno dato vita alla creazione di un nuovo business. Il dato ci pone poco al di sotto della media Europea (5,9%).
Fin qui tutto positivo e, tra alti e bassi, anche il confronto con gli altri Paesi ci pone poco sotto la media. Purtoppo, i segnali diventano più foschi se si ragiona in termini tecnologici.
I dati mostrano che in Italia, a differenza di altri Paesi, le nuove iniziative imprenditoriali hanno un basso contenuto tecnologico. I prodotti sono low tech. Imputato principale, secondo lo studio, la difficoltà di accesso alle risorse finanziarie. Da ciò discende anche la bassa aspettativa di esportazione che hanno i nostri nuovi imprenditori sui loro prodotti. «Tuttavia – precisa Guido Corbetta, direttore di EntER – è bene tenere presente la vocazione poco manifatturiera della nostra industria. Più interessante è il fatto che i nosti imprenditori si sentono più inventori, più creativi. Sicuramente meno tecnologici e innovatori».