La ricerca perduta

Andrea Rossi su Lastampa

Sette di sera. Via Giuria, al primo piano Francesco Prino, professione ricercatore, è ancora in ufficio. Il suo team lavora al progetto Alice. Da quel laboratorio sono usciti due «pezzi» dell’Lhc, il maxi acceleratore di particelle realizzato al Cern di Ginevra per ricreare i primi momenti successivi al Big Bang. In quattro anni di lavoro il ricercatore Francesco Primo ha raggiunto quota 1600 ore «extra» lavorate. Il ministero non gliele pagherà mai, perché non era tenuto a farle. Lui lo sa e ci scherza su: «Se mia moglie lo viene a sapere rischio il divorzio».

Gli Stakanov dell’Università non estraggono carbone come il leggendario minatore sovietico, ma idee, volumi, progetti. Macinano giornate tra cattedra e laboratorio, accumulano ore in eccesso che mai saranno pagate. Un esercito di under 40: 857 all’Università, 347 al Politecnico dove al conto vanno aggiunti 588 assegnisti e 700 dottorandi. Precari, molti, eppure pilastri della ricerca. Poi ci sono docenti e direttori di dipartimento, e anche qui – per molti – le ore lavorate e le nottate in bianco non si contano.
In Italia non hanno molti rivali. Basta scorrere l’ultimo rapporto del Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr), che vede Università e Politecnico piazzate ai primi posti in molti settori, a cominciare dalle aree scientifiche e tecnologiche. Un universo che produce ad altissimi livelli ma vive al limite e – ora che nuovi tagli sono in arrivo – spesso oltre. Prendete Francesca Filippi. Il computer su cui lavora al dipartimento di Progettazione architettonica è suo, nel senso che l’ha comprato di tasca propria: «Siamo in tanti, senza telefono e a volte anche senza una targhetta fuori dall’ufficio».

Più che altro lavorano quasi a spese proprie: 1300-1500 euro di stipendio per gli assegnisti, «niente tredicesima né mutua», aggiunge Daniela Ciaffi del dipartimento Territorio. Non hanno orari, e nel loro caso è una fregatura: «Lavoriamo 9-10 ore al giorno. A volte, anche il sabato e la domenica», dice Stefano Bagnasco dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Insegnano anche, «e in più facciamo ricevimento, esami e seguiamo i tesisti. Tutte ore non pagate», spiega Francesco Pescarmona, del dipartimento di Meccanica al Politecnico. Più che altro spesso lavorano a vuoto. «Per dieci progetti che scrivo, e presento, me ne finanziano uno», dice Francesca Filippi. Non saranno validi, verrebbe da pensare. Invece no: mancano i soldi.

Fotografia di un’eccellenza compressa. Dai fondi erogati con il contagocce ai viaggi impossibili, dai libri acquistati di tasca propria ai traduttori ingaggiati per pubblicare sulle riviste estere, mille euro ad articolo. Ricercatori, assegnisti, dottorandi – ma anche i docenti – hanno da tempo cominciato a familiarizzare con il concetto di low-cost. Meno soldi si spendono per viaggi, alberghi e ristoranti più ne restano nelle casse del dipartimento. «L’iscrizione ai convegni spesso è a spese nostre», spiega Francesca Filippi, «e così il viaggio, a meno che non si vinca una borsa di studio». Per vitto e alloggio vige «coachsurfing», il sito di chi mette a disposizione il divano di casa propria; oppure, direttamente, si chiede ospitalità ai colleghi di altre città.

Qualche fortunato c’è. La differenza sono i finanziamenti dei privati. Non a caso al Politecnico – dove i privati che investono sono molti – fare ricerca spesso non è un percorso a ostacoli. «I fondi statali sono appena sufficienti per l’ordinaria amministrazione», racconta Francesco Pescarmona. Come tanti, lui è un ricercatore a scadenza: il 31 dicembre il suo assegno quinquennale sarà al capolinea. E dopo? «Diventerò un co.co.co. Oggi, l’assegno di ricerca, che avrebbe dovuto essere un ponte tra il dottorato e la cattedra, è diventato una condizione di vita». «La verità – insiste Giuseppe Roccasalla – è che la nostra rischia di diventare una professione classista, da ricchi, se continueranno a tagliare i finanziamenti».