Andrea Rossi su La Stampa
Quando va bene lavorano. Ma come? E soprattutto, con quale reddito? Mille euro è una soglia psicologica. Per tanti un miraggio. Qualcuno lo agguanta subito, altri lo inseguono per anni portandosi dietro frustrazioni a non finire. Ma, all’inizio, capita a pochi. Il primo stipendio – vero, lavoro per vivere – viaggia tra 450 e 1100 euro al mese. E c’è un paradosso, per molti una beffa: più hai studiato, meno guadagni. Qualche esempio: a parità di ore lavorate, spesso, un cameriere, o un barista, guadagna più di un ingegnere o un laureato in Storia. Il perché è semplice, e lo spiega Marco Giustino, universitario fino a sette mesi fa e oggi impiegato in un’azienda. «Ho finito Economia, ma non ho trovato nulla che somigliasse a quel che avevo studiato. E così correggo bozze». Eccolo, il perché: i laureati faticano a trovare occupazioni «da laureati» e così ripiegano su lavori per i quali non servono qualifiche speciali. Potrebbe essere accettabile, se durasse poco. Il rischio però è di rimanere invischiati. E, nel frattempo, invecchiare.
«L’idea che seguire un processo di scolarizzazione sia la premessa per compiere un balzo nel mondo del lavoro non è più così valida. Il patto tra università e lavoro si è rotto. E va ridefinito», spiega Igor Piotto, segretario provinciale della Flc-Cgil. «Questo chiama in causa gli atenei e la loro capacità di formare i laureati, ma anche le aziende che troppo spesso fanno ricorso a neolaureati mal pagati. Si tende, più che a premiare la professionalità, a ridurre i costi».
I disfattisti potrebbero chiuderla qui: l’università non serve più. E farsi forza con le statistiche che mostrano un calo nelle immatricolazioni. A Torino non è così. E il rettore dell’università Ezio Pelizzetti mette in guardia: «È sbagliato pensare che chi ha studiato 5 anni in più debba guadagnare molto o occupare ruoli di responsabilità. Il discorso andrebbe allargato al lungo periodo, andando a vedere che cosa succede dieci anni dopo. Certo, all’estero un laureato guadagna il 50 per cento in più che in Italia. Ed è un divario che pesa».Il 74 per cento dei laureati, a tre anni dalla fine degli studi, ha un impiego. A voler essere disfattisti, significa che uno su quattro non ha di che guadagnarsi da vivere. E il 21 per cento di chi lavora continua a oscillare tra un’occupazione e l’altra, tra contratti a termine e interinali. Gli stipendi vanno di pari passo: a un anno dalla laurea la media è 850 euro al mese e sorride agli ex studenti del Politecnico, che riescono addirittura a strappare ai loro datori di lavoro 900 euro. Tre anni più tardi, la situazione migliora, senza trionfalismi: si passa da 850 a 1.100.
Per i non laureati cambia poco. Faticano meno a trovare un’occupazione stabile ma non hanno prospettiva di godere di un tenore di vita accettabile in futuro. Il loro stipendio ha ottime possibilità di restare sostanzialmente al palo, quota 900-1000 euro. Finisce che tre su quattro bussano alla porta di mamma e papà per chiedere una mano.
Oggi, del resto, le aziende, anziché assumere, tentano di frenare l’emorragia. E, ovunque, si diffondono forme di lavoro sempre più atipiche. Prendete il comparto del commercio. Si dovrebbe entrare come apprendisti: 400 euro al mese, contratto di 4 anni metà lavoro metà formazione; alla fine nell’80 per cento dei casi si viene confermati. «Un apprendista costa poco, ma ha un contratto lungo, e quindi le aziende preferiscono evitare», racconta Elena Ferro della Cgil-Filcams. «Optano per contratti a tempo, a ore, per i fine settimana, part-time. E i ragazzi entrano in un circuito per cui si naviga a vista di contratto in contratto». A vista e con le tasche vuote: un part-time da barista o commesso vale 600 euro al mese, che diventano 1100 con un full time.
Il guaio è che per afferrare un lavoro da 1100 euro un laureato al primo impiego farebbe follie.