Un dubbio, un forte dubbio, sta serpeggiando fra gli operatori del settore: a Mediaset qualcuno non ci dorme la notte; in Rai dicono che non è colpa loro, che se non ci fosse stata di mezzo l’imposizione dell’Unione europea…; al ministero rassicurano, non potendo fare altro. Il dubbio nasce dal fatto che, dopo infiniti rimandi, il digitale terrestre incontra più difficoltà del previsto e che, alla fine, rischia di rivelarsi per quello che è: una tecnologia obsoleta, costosa, limitata. Quello che l’ex ministro Gasparri presentava come il Paradiso terrestre delle comunicazioni pare ogni giorno di più un inferno. La messa in opera del Dtt è in sofferenza, come testimonia la Sardegna, dopo lo switch off di ottobre, lo spegnimento della tradizionale tv analogica e il passaggio coatto alla nuova tecnologia. In molte zone ci sono seri problemi di ricezione: non si vede ancora il nuovo ma non si vede più neanche il vecchio. Della nuova situazione ha approfittato Sky, aumentando il normale trend dei propri abbonamenti sull’isola. Che il passaggio da una tecnologia di vecchio tipo a una nuova comportasse una serie di problemi lo si sapeva, succede in tutti i campi. C’è molta confusione sui decoder (quelli comprati a minor prezzo non danno garanzie di affidabilità, alcuni non hanno nemmeno gli standard europei e quindi non riescono a captare le frequenze Vhf, su cui trasmette la Rai), la sintonizzazione dei canali non è impresa facile, molte antenne vanno sostituite o ripuntate e comunque liberate dei vecchi filtri. Nei centri urbani i risultati cominciano a dare i loro frutti e dove prima si vedevano 20 o 25 canali adesso se ne possono vedere 80, con una migliore qualità dell’immagine. Ma i veri problemi di fondo sono altri, due in particolare. La tecnologia del Dtt è una tecnologia pesante, ha bisogno di molti trasmettitori, più potenti e più capaci dei mille e mille vecchi tralicci con cui, in cinquant’anni di storia, la Rai è riuscita a «illuminare» l’intero Paese.