Da Repubblica Affari e Finanza
Esistono le Silicon Valley italiane? Non è una questione accademica ma la conseguenza di quello che dicono i dati dell’industria Made in Italy. Dati che parlano di un boom delle esportazioni che fa dell’Italia l’unico paese del mondo, assieme alla Germania, ad avere la stessa quota del commercio mondiale di mezzo secolo fa, quando Cina, India e Corea, industrialmente non esistevano ancora, e non c’era nemmeno il Giappone (vedi l’articolo pubblicato a pagina 14). Il Made in Italy vende, ha saputo riconvertirsi dai prodotti di bassa qualità a quelli ad alto valore aggiunto. Produce macchine e sistemi complessi, innova in tutta la filiera e in tutte le filiere. E allora dovrà pure avere dei centri di eccellenza. O no?
La risposta è complessa. Ma a voler proprio semplificare senza bizantinismi, l’unica risposta possibile è: no. Ecco perché.
Quando si parla di distretti hitech italiani le realtà che vengono in mente non sono moltissime. E a volte sono anche un po’ generiche. C’è il distretto milanese delle biotecnologie, il polo catanese dei processori. Ci sono nanotecnologie in veneto. Ci sono distretti avionici a Sesto Calende, a Napoli e a Grottaglie. C’è la robotica a Pisa. E ci sono i parchi scientifici. Ad interrogare addetti ai lavori ed esperti del settore si ottiene un giudizio unanime. La maggior parte di queste cose esiste solo sulla carta o poco più. Non sono distretti.
«Se con ‘Silicon Valley italiane’ intendiamo dei poli di sviluppo di soluzioni tecnologiche che si sono sviluppati spontaneamente e che nel tempo hanno creato sistemi di relazioni stabili, network di collaborazioni tra centri di ricerca pubblici e privati e aziende, allora no, non ce ne sono – Spiega Vittorio Chiesa, docente di Strategie e organizzazione della ricerca e sviluppo del Politecnico di Milano – Ciò che fa sviluppare un distretto hitech è l’imprenditorialità, la presenza di soggetti che autoalimentano il distretto, che fanno nascere di continuo nuove aziende, nuove relazioni. Ecco, questo in Italia succede ancora molto poco. Ci sono delle realtà, ma non fanno sistema, non creano un humus. O perlomeno non l’hanno fatto finora. O solo in minima parte».
Il distretto milanese delle biotecnologie è un caso. Fortunato ma un caso. Nasce dalle dismissioni dei laboratori italiani delle grandi multinazionali (Boering, Glaxo, Pharmacia e così via) che alla fine degli anni Novanta abbandonano l’Italia per andare a produrre altrove. Vengono rilevati dal management con il supporto di banche e dei primi fondi. E’ da queste realtà che nascono alcune brillanti medie aziende farmaceutiche italiane, lì nell azona, come la Rottapharm dei Rovati, o anche in Veneto, come la Zambon a Vicenza. Operano in nicchie, e lo fanno benissimo. Ma non creano sistema. Anche se la presenza del San Raffaele può rafforzare l’idea di un sistema specializzato sulle biotecnologie.
Il polo catanese dei microprocessori non è un distretto: è la Stm di Catania. così come i cosiddetti poli dell’avionica sono quel minimo di germinazione di indotto attorno agli assets aeronautici di Finmeccanica, con l’Alenia a Napoli e in Puglia e con gli elicotteri dell’Agusta a Sesto Calende, in provincia di Varese.
Questo quanto ai poli tecnologici che hanno un pedigree industriale. Il resto del panorama è fatto invece di distretti che nascono in ambito pubblico. E qui nasce una buona dose di confusione, perché spesse volte il nome di ‘distretto’ è assegnato per battesimo e non perché il tempo abbia fatto emergere un vero network. Il caso esemplare è il distretto veneto delle nanotecnologie. Veneto Nanotech nasce nel luglio 2003: la Regione Veneto, le due università venete di Padova e Venezia, la Fondazione degli Industriali veneti e con la benedizione del ministero della Ricerca fanno nascere il distretto con decreto. E lo dotano di fondi pubblici per aiutare lo sviluppo di spin off universitari. «Negli anni Novanta quasi ogni regione ha costruito il suo parco scientifico e tecnologico», ricorda Andrea Piccaluga, responsabile dell’osservatorio piccole imprese hitech della Toscana, realizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Un’ondata di interventi pubblici nel settore della ricerca di cui oggi restano delle cose, ma non poi troppe. «Restano soprattutto continua Piccaluga – una gran quantità di singole azioni di innovazione, senza coordinamento tra di loro, con troppe sovrapposizioni e dispersione di risorse».
In questo panorama disordinato ci sono però dei veri centri di eccellenza. Esperienze molto positive. Solo che anche in questo caso parlare di distretti è eccessivo. Sono fondamentalmente tre: Torino Wireless, il Science Park Area di Trieste e il polo della robotica di Pisa.
Torino Wireless concentra risorse nel settore dell’Ict, è nato quattro anni fa unendo le forze di industriali e università, sfruttando la tradizione di ricerca del settore che a Torino vede la presenza di Cselt, i laboratori di Telecom Italia e del Centro ricerche Fiat che già da anni ha individuato un filone di ricerca nel mondo Ict. Ha finora seguito 182 imprese della zona con interventi che vanno dal supporto tecnologico e manageriale e quello finanziari, attivando risorse per 80 milioni nel quadriennio 20032006.
Il Science Park Area di Trieste è stato il primo parco scientifico e tecnologico italiano, oggi ospita 84 laboratori pubblici e centri di ricerca, con 2.100 tra ricercatori e tecnici. Un numero che contribuisce per oltre il 40% al totale di 5000 addetti alla ricerca di tutta la provincia di Trieste: sono numeri che fanno di quella triestina una delle aree maggiormente vocate alla ricerca, e non solo in Italia: visto che ha un rapporto tra ricercatori e popolazione attiva di 37 a mille (il Giappone è 9 a mille, gli Usa 8 e la media Ue è 5,7).
Il vero dato positivo di questo scenario italiano è che solo oggi possiamo dire che sia stato definitivamente superato il tabù che ha tenuto separati per anni ricerca universitaria e mondo delle imprese. Un dato dice tutto: l’80% delle oltre 454 imprese italiane nate da spin off universitari sono state costituite nel corso degli ultimi sei anni appena.
Ecco, a guardare con un po’ di ottimismo il quadro italiano, si può dire che forse siamo appena all’inizio di una nuova era per quanto concerne l’hitech. Le gemmazioni di aziende universitarie, che dieci anni fa erano un miraggio, oggi spuntano ovunque. Ma è solo il primo passo. Il prossimo è che queste aziende si dotino di maggiore spirito imprenditoriale. «E’ facile creare imprese che facciano solo ricerca, come molte delle nostre – spiega Chiesa – Sono generatrici di ricerca, venditrici di ricerca, ma il passo successivo, creare un business, acquisire competenze di marketing e di finanza, lo fanno ancora davvero in pochi».
La sensazione che molte cose siano in procinto di evolversi viene anche da realtà completamente diverse. Un centro di ricerca di livello mondiale come il Tivoli Lab di Roma della Ibm, forte dei suoi 600 ricercatori, ha fino ad oggi lavorato in rete sì, ma con il resto del mondo piuttosto che con la realtà romana. «Ma stiamo registrando una maggiore vitalità da parte delle imprese italiane – afferma il direttore Giovanni Lanfranchi – Abbiamo appena aperto la community italiana di Eclipse, una nuova piattaforma open source, e abbiamo raccolto subito molte più adesioni del previsto. E stiamo iniziano a lavorare all’ipotesi di aprire alle imprese romane, o comunque del Centro Italia il nostro ‘Patent Board’ l’ufficio che fornisce supporto nella registrazione dei nuovi brevetti. Che finora ha lavorato solo per la nostra struttura».
Ma se l’hitech italiano è ancora così embrionale, che cosa ha sostenuto la crescita? «Potremmo definirlo il ‘mitech’, tecnologie complesse ma non sui livelli più avanzati della ricerca – sostiene Marco Fortis, docente di Economia industriale alla Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison – Ma realtà come la Hydralulic Valley emiliana, il distetto delle macchine oleodinamiche, o i distretti delle valvole in Valsesia o la ‘Packaging Valley ancora in Emilia dove ci sono gioielli di valore mondiale come Ima e Seragnoli, di tecnologia ne producono e ne utilizzano moltissima». Loro sì, che fanno sistema e crescono a due cifre. Quando le università e la ricerca ufficiale lo capiranno e andranno a studiare da loro, potranno nascere novità interessanti.