tuffi

Da venerdì 20 gennaio a domenica 22 si sono tenuti i campionati nazionali assoluti di tuffi, qui a Torino. La piscina Monumentale di C. G. Ferraris è stata teatro dell’evento e, per una serie di fortunate coincidenze, ho potuto assistere a due delle fasi eliminatorie.
La prima parte delle eliminatorie vedeva impegnati gli uomini (trampolino, 3 metri), la seconda, le donne (trampolino, 1 metro). L’età degli sportivi è, in media, abbastanza bassa. I tuffatori più in gamba non sono di primo pelo e si vede. Corpi scolpiti, pieni di muscoli di cui, noi comuni mortali, ignoriamo persino l’esistenza. Ragazzi dal corpo statuario si preparano a turno, uno per volta. Respirano a fondo, chiudono gli occhi un istante, cercano la concentrazione perfetta e poi danno il via alla performance. Sei tuffi, nella fase eliminatoria. Sei tuffi sembrano pochi, se li consideriamo così, come siamo abituati a farli noi, in piscina, un afoso sabato pomeriggio di luglio. Ma se sei uno sportivo e partecipi a una competizione nazionale, sei tuffi sono un lavoro.
Le fanciulle, che si tuffano da un’altezza inferiore, sembrano decisamente meno aggraziate dei ragazzi. Forse, però, è solo perché il trampolino è a un metro dall’acqua.
Mentre assisto alle evoluzioni di questi atleti mi sovviene un momento importante della mia vita, che ho finalmente interpretato come madre e non più come figlia.
Quando avevo 14 anni, ed ero una ginnasta (artistica) e una nuotatrice a tempo perso, l’istruttore di nuoto che mi seguiva, vedendomi tuffare, mi chiese se mi interessasse entrare a far parte della squadra di tuffi. Lì per lì la proposta mi lusingò, poi, una volta fatti i dovuti accertamenti e ragionamenti al riguardo, declinai l’offerta.
Avevo l’età giusta per iniziare a praticare questo sport e una base solida di ginnastica artistica (direi indispensabile) per poter affrontare la cosa. Ma. Da un lato mio padre mi stuzzicava: non a tutti viene richiesto di fare parte di squadre che possono portarti a livelli olimpici o quasi. Dall’altro, mia madre mi riportava con i piedi per terra: studiando al liceo classico, prima viene l’impegno scolastico, poi tutto il resto. Anche mio padre era di questo avviso, ma secondo lui avrei potuto conciliare perfettamente le due cose. Credo mi sopravvalutasse un po’.
Per farla breve. Vedendo questi giovani, già parte di corpi dell’esercito con scopi sportivi, mi è venuto in mente il perché avevo rinunciato. Non avevo nessuna voglia di eliminare i momenti che ritenevo il meglio della mia età. Da ragazza adolescente, pur avendo una sana passione sportiva, non mi fregava niente, e dico niente, della competizione. Non pensavo di volermi allenare tutta la mia giovinezza per saltare da un trampolino. Non volevo rinunciare alla normalità della scuola e dei pomeriggi di studio o svago.
E ora, come madre, anche se mia figlia ha solo 4 anni, penso che se mia figlia mi rispondesse come io avevo risposto ai miei allora, lo capirei e lo accetterei. Il punto è: ma se invece lei volesse proprio diventare una campionessa? Saprò assecondarla, spronarla, sostenerla? Perché, in fin dei conti, sono un’insegnante e la penso proprio come mia madre: l’istruzione viene prima di tutto. Senza cultura non si va da nessuna parte. E a ben guardare i miei allievi di oggi, ne sono sempre più convinta.
E voi, cosa direste voi ai vostri pargoli, se volessero eccellere in una disciplina che impone sforzo fisico, sacrificio e limitazioni della libertà e dei tempi di studio e svago?