Il coltello nel bordello

Tra festini e allegrezze più o meno erotiche di ragazzette e giovani donne con anziani signori sull’orlo del naturale decadimento psicofisico, la cronaca della politica conferma un costume senza tempo, raccapricciante ma esplosivamente comune.

Che sia l’avvenente badante ucraina o la fascinosa donzella nostrana l’idea dell’uomo maturo, per non dire grigio, che perde testa e patrimonio nelle ultime bavose cartucce da sparare sembra accettata come la più normale delle umane debolezze.

Nei brindisi ormonali del bordello il ricco e il potente affondano solo di più la lama del coltello, insomma possono permettersi più capricci e più sfizi: al mercato delle vacche, non me ne vogliano le vacche, più paghi più puoi acquistare, si sa.

Non mi addentro in questioni giudiziarie anche perché io non devo fare equilibrismo politico, fingere aperture di pensiero “laico e moderno”, sbandierare il garantismo, scindere le virtù pubbliche dai vizi privati e robaccia del genere quindi mi basta la dimensione morale, culturale e sociale. Rivendico il diritto del popolo sovrano a sapere tutto prima di scegliere e decidere, alla faccia della privacy che per chi ha l’ardire di occuparsi della cosa pubblica non ha alcuna ragione di esistere e di meritare tanta pelosa protezione. Voglio il voto consapevole, ecco. Ammetto le candidature a cariche politiche di prostitute, cocainomani, pornodivi, truffatori, evasori, mafiosi. Ma devo sapere che lo sono, tutto qui. Sta a me, popolo sovrano, scegliere di votarli o di dedicargli una sonora pernacchia.

Gli ometti ne escono con le ossa rotte, così proni alle manipolazioni di una bocca rifatta, di un seno ingigantito, di qualche performance hard, così pronti a dilapidare la dignità per qualche serata da finti leoni, così schiavi dell’ebbrezza del potere che sembra togliere anni, rughe e intorpidimento dei sensi. Così arroganti da liquidare affetti, amor patrio, intelligenza, storiche occasioni di orgoglio per illusioni da galletto nel pollaio.

Ma non è che le donne facciano proprio un figurone, diciamolo. Arpie, competitive, insaziabili, arrampicatrici, isteriche, spudorate: offensive della propria intelligenza e della sensibilità di tutto il genere femminile. Senza indagare “se il concupito ha il cuore libero oppure ha moglie” ma non come Bocca di Rosa, che lo faceva per passione.

Sculettate, più che spallate, per avidità, egocentrismo, smania di lustrini.

Per gli uomini è elettrizzante lo scambio di concessioni: alle donne che concedono le loro grazie concedono in lauta mancia un programma tv, un pied a terre, una poltrona di apparente comando. Alle donne basta quella briciola di affermazione per pavoneggiarsi, credere di aver in pugno il libidinoso di turno, sentirsi una spanna sopra le donne rimaste nell’ombra.

Altro che quote rosa. Orrore, orrore. Perché mai dettare regole per spianare la strada alle pari opportunità quando il merito non ha alcuna radice nelle nostre coordinate di tempo e luogo? E quando, soprattutto, le donne preferiscono le scorciatoie?

Più che un sesso forte abbiamo un forte sesso. Quasi il punto di incrocio di tutte le disgrazie, invece di tutti i gioiosi godimenti. Menti obnubilate da quel mix di istinti primordiali, sfida, brama di successo. Ma siamo sempre lì, a quel concetto di successo che ci ha ridotti a larve. Non c’è qualità, non c’è profondità. Banditi gli ideali, l’impegno civile, la fierezza del lavoro, la rettitudine, il senso di responsabilità. Sberleffi a profusione alle scienze, alle lettere, all’opera di mano. Ci sono valori più travolgenti, desideri più impellenti, ambizioni più motivanti: la forma fisica, il lusso, la copertina del giornale di gossip. Un po’ di coca e tante bollicine alcoliche.

Che succederà passata la sbornia collettiva?

Ce l’hanno tutte, anche Ruby

Alludo a una borsa Louis Vuitton.

Ruby può averla acquistata, esserne in qualche modo graditissima testimonial o averla ricevuta in dono. Ma ce l’ha.

Come più o meno tutte. A occhio, per le migliaia di ragazze e donne alle quali ho notato al braccio o sulla spalla l’accessorio in questione, direi che a parte me e poche altre defezioni Louis Vuitton ha fatto il pieno…

C’è chi sfila con la griffe taroccata, d’accordo. Ma siamo ormai tutti consci che il ricco mercato si nutre anche della merce falsa. Quello che conta è la smania collettiva, la consacrazione di oggetto cult e il bisogno o il piacere di esibirlo pur fasullo che sia. Non per altro si imita e si scopiazza bellamente solo ciò che ha successo.

La borsa Louis Vuitton, negli svariati modelli in cui prende forma, potrebbe scoprirsi trasversale. Piace alla ragazzina con ansie modaiole, alla donna in carriera, alla pensionata di lusso. All’impiegata old style e alla vezzosa signorina rubacuori.

Ma, non me ne voglia la maison, l’oggetto non mi appassiona.

Torno a bomba su Ruby che compare con la sua Louis Vuitton. E quella fotografia che la immortala non solo avvicina Ruby a tutte le fan del marchio, svela la realtà. The show must go on. Che il mondo sia in subbuglio, che l’economia sia al tracollo, che società e cultura siano a brandelli sembra restare sullo sfondo o celato dietro patine dorate o confinato in sacche disperatamente sole.

Basta che non si fermi la giostra, ecco, l’ossessione diffusa pare questa.

Temo che lo spietato bluff del nostro tempo ci abbia messo nel sacco, insomma.

Ma credo che questa non sia proprio un’idea popolare: non ce l’hanno tutte, forse neanche Ruby.

C’è poco da ridere

Sono stanca di dosi massicce e viziose di ironia e risate.

Risparmiatemi le prediche sulla genialità illuminante dell’una e sulla bontà terapeutica delle altre, per carità. Non vorrei mettere in dubbio la delizia dell’arguzia, il diletto di una risata, l’infinita energia della loro combinazione. Anzi. Mi sconvolge proprio che non abbiano un effetto dirompente e una portata rivoluzionaria negli orizzonti perseguibili dal bene.

Accidenti, arriviamo al bene. E quindi, al male.

Perché ironia e risata hanno sdrammatizzato tutto. Di questo ho terrore e fastidio.

La comicità burlesca come la satira più feroce hanno sgonfiato la rabbia. Come se la battuta e l’ilarità avessero spostato la tragedia sul piano umano delle evenienze inevitabili. La derisione non travolge, non sradica, non induce cambiamenti. Se ridiamo le tensioni si allentano. Lo sfogo chiude la parentesi, esaurisce le reazioni a ciò che lo ha scatenato. Beffa e sghignazzata sono diventati calmanti, vie di fuga. Mettendo a tacere i nostri moti di ribellione spassandocela dietro qualche giocoliere dell’umorismo e qualche mordace castigatore di costumi ci siamo spalmati addosso una rassegnazione senza ritorno.

Questa ironia in chiave di sedativo, di distrazione di massa, di placebo mi procura stizza e sofferenza. Acuite ancor più dal ghigno dei dileggiati e degli insultati. Loro ci sguazzano nella grassa voracità di battute, nella pratica dilagante di ridurre in barzelletta ogni turpitudine, nella smania di critica pecoreccia. Non è raro, si sa, che foraggino con lauti compensi il brillante cabaret contro l’ordine costituito, le trame occulte, il mercato ladrone, la banca padrona. Altro che censura. I furbi non vietano il fucile che spara a salve.

D’altra parte è proprio in questa falsa rappresentazione della libertà che la libertà, quella vera, ha sepolto parola, vitalità, grinta.

Sappiamo bene che invece di guardare la luna ci imbamboliamo spesso sul dito puntato verso di lei. E che ci siamo rammolliti davanti allo scempio solo perché ci elargiva la giustificazione dell’impotenza e della rassegnazione. Ci siamo convinti pure a consacrare la leggerezza come arma di saggezza!

D’accordo, forse non possiamo mandare all’aria grandi disegni, complotti universali e potentissimi sistemi. E neanche, magari, inchiodare alla croce i nostri carnefici.

Ma per dignità potremmo almeno infilare qualche sassolino fastidioso negli ingranaggi, far prendere un po’ di paura ai cattivi, dimostrare che abbiamo capito la storia e che, se dobbiamo soccombere, scegliamo di farlo con consapevolezza e nella brezza di un po’ di risveglio morale.

L’indecenza della politica è la nostra indecenza. Dobbiamo stanare la nostra coscienza e farle respirare il senso della vita.

L’amore universale di Vecchioni è un ottimo stimolo. Non fatene subito una questione politica, pure questa sarebbe una gabbia. Perché dobbiamo aggiungere il pudore e la vergogna, quelli che nessun colore o schieramento può sbandierare oggi. Li abbiamo svenduti e il prezzo che dobbiamo pagare per riacquistarli è altissimo. Una sfida. Finalmente una coraggiosa sfida intellettuale. Perché abbiamo bisogno di coraggio, per smettere di abusare della risata e perché smettano di abusarne pure loro, i leader perfetti di un Paese scostumato. Amore e pudore, che meraviglia!

Finiamola dunque di archiviare l’orrore nel repertorio di qualche esilarante cabarettista.

Riprendiamoci il tempo di pensare e di agire, innanzi tutto depennando a colpi di risate dall’agenda quotidiana tutti gli impegni prestampati, quelli che sono serviti a imbottirci di illusioni per levarci dai piedi dei burattinai.