C’è poco da ridere

Sono stanca di dosi massicce e viziose di ironia e risate.

Risparmiatemi le prediche sulla genialità illuminante dell’una e sulla bontà terapeutica delle altre, per carità. Non vorrei mettere in dubbio la delizia dell’arguzia, il diletto di una risata, l’infinita energia della loro combinazione. Anzi. Mi sconvolge proprio che non abbiano un effetto dirompente e una portata rivoluzionaria negli orizzonti perseguibili dal bene.

Accidenti, arriviamo al bene. E quindi, al male.

Perché ironia e risata hanno sdrammatizzato tutto. Di questo ho terrore e fastidio.

La comicità burlesca come la satira più feroce hanno sgonfiato la rabbia. Come se la battuta e l’ilarità avessero spostato la tragedia sul piano umano delle evenienze inevitabili. La derisione non travolge, non sradica, non induce cambiamenti. Se ridiamo le tensioni si allentano. Lo sfogo chiude la parentesi, esaurisce le reazioni a ciò che lo ha scatenato. Beffa e sghignazzata sono diventati calmanti, vie di fuga. Mettendo a tacere i nostri moti di ribellione spassandocela dietro qualche giocoliere dell’umorismo e qualche mordace castigatore di costumi ci siamo spalmati addosso una rassegnazione senza ritorno.

Questa ironia in chiave di sedativo, di distrazione di massa, di placebo mi procura stizza e sofferenza. Acuite ancor più dal ghigno dei dileggiati e degli insultati. Loro ci sguazzano nella grassa voracità di battute, nella pratica dilagante di ridurre in barzelletta ogni turpitudine, nella smania di critica pecoreccia. Non è raro, si sa, che foraggino con lauti compensi il brillante cabaret contro l’ordine costituito, le trame occulte, il mercato ladrone, la banca padrona. Altro che censura. I furbi non vietano il fucile che spara a salve.

D’altra parte è proprio in questa falsa rappresentazione della libertà che la libertà, quella vera, ha sepolto parola, vitalità, grinta.

Sappiamo bene che invece di guardare la luna ci imbamboliamo spesso sul dito puntato verso di lei. E che ci siamo rammolliti davanti allo scempio solo perché ci elargiva la giustificazione dell’impotenza e della rassegnazione. Ci siamo convinti pure a consacrare la leggerezza come arma di saggezza!

D’accordo, forse non possiamo mandare all’aria grandi disegni, complotti universali e potentissimi sistemi. E neanche, magari, inchiodare alla croce i nostri carnefici.

Ma per dignità potremmo almeno infilare qualche sassolino fastidioso negli ingranaggi, far prendere un po’ di paura ai cattivi, dimostrare che abbiamo capito la storia e che, se dobbiamo soccombere, scegliamo di farlo con consapevolezza e nella brezza di un po’ di risveglio morale.

L’indecenza della politica è la nostra indecenza. Dobbiamo stanare la nostra coscienza e farle respirare il senso della vita.

L’amore universale di Vecchioni è un ottimo stimolo. Non fatene subito una questione politica, pure questa sarebbe una gabbia. Perché dobbiamo aggiungere il pudore e la vergogna, quelli che nessun colore o schieramento può sbandierare oggi. Li abbiamo svenduti e il prezzo che dobbiamo pagare per riacquistarli è altissimo. Una sfida. Finalmente una coraggiosa sfida intellettuale. Perché abbiamo bisogno di coraggio, per smettere di abusare della risata e perché smettano di abusarne pure loro, i leader perfetti di un Paese scostumato. Amore e pudore, che meraviglia!

Finiamola dunque di archiviare l’orrore nel repertorio di qualche esilarante cabarettista.

Riprendiamoci il tempo di pensare e di agire, innanzi tutto depennando a colpi di risate dall’agenda quotidiana tutti gli impegni prestampati, quelli che sono serviti a imbottirci di illusioni per levarci dai piedi dei burattinai.