Cara C,
oggi, tornando a casa mi sono imbattuta in una battaglia di stelle filanti e coriandoli e bambini mascherati, così, inebriata e con la bocca impastata di carta colorata, sono tornata con la testa tra le nuvole a ripensare a quando ci si mascherava, bambini, e a quante volte la maschera sia con noi, tutti i giorni. Mi è venuta l’idea di tornare un po’ tra i banchi di scuola, a lezione di filosofia, e per tenere ancorata la testa alle nuvole, ho chiamato un vecchio amico docente e filosofo, per riflettere con lui sul tema della maschera. Claudio ci ha regalato un suo pensiero che ti riporto qui e condivido con tutte le nostre lettrici e i nostri lettori.
“Tutta la vita umana non è che una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico”: da Erasmo da Rotterdam a Luigi Pirandello – “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti” – la figura simbolica della maschera è pensata come velamento, copertura di ciò che l’individuo è veramente, come quello strato che separa ogni individuo dagli altri ma, al tempo stesso, permette di apparire, di essere visto, forse riconosciuto. Così, ciò che sembrerebbe falsare ogni rapporto, renderlo inautentico, viziato da caratteristiche, atteggiamenti, comportamenti artefatti, non è allo stesso tempo ciò che ci rende in grado di interagire?
Del resto, gli storici e gli antropologi culturali ci insegnano che, durante il carnevale – cioè in condizioni “controllate” – la tradizione di indossare una maschera permette di ridefinire temporaneamente la struttura sociale di una comunità: il giullare può schernire il sovrano, il contadino può deridere il signore, il figlio può disobbedire al padre. Questa dinamica mette in luce come l’assunzione delle fattezze di un tipo determinato (Arlecchino, Gianduja nella tradizione carnevalesca; il professionista, il padre, la madre, lo studente, il malato mentale, il detenuto ecc. nel nostro contesto sociale) legittimi certe azioni che non sarebbero lecite o accettate se compiute da altri. Così, nella vita quotidiana, da chi svolge una certa professione o ricopre un certo ruolo sociale ci aspettiamo comportamenti e azioni di un certo tipo, che non ci aspetteremmo da altri. Analogamente, anche nelle nostre relazioni finiamo per trovarci come irrigiditi, fissati, solidificati in maschere: ce le costruiamo a partire da ciò che gli altri pensano e dicono di noi, da come ci considerano, da cosa si aspettano da noi. In altre parole, i lavori che svolgiamo, gli ambienti che frequentiamo, le relazioni che intessiamo, costruiscono poco a poco delle maschere sociali che rendono prevedibili (e politicamente orientabili) le nostre condotte. La maschera ci rende riconoscibili da tutti proprio nella stessa misura in cui ci vela: ci rende noi stessi nello stesso atto di renderci altro da noi (Hegel e Marx direbbero: nel suo alienarci).
Di contro, tendiamo a pensare che sotto la maschera permanga sempre il nostro vero io, ciò che siamo davvero, come una sorta di nucleo granitico che sorregge la maschera stessa. Da cui l’espressione “giù la maschera!”, ossia “mostrati nel tuo vero essere!” E tuttavia: cosa saremmo al di fuori di quelle condotte, cioè di quelle maschere? Cos’è un volto nudo? È possibile non indossare maschere ed essere propriamente se stessi? Se la maschera ci rende soggetti, dismettere ogni maschera corrisponderebbe probabilmente all’abbandono di ogni individualità. Ma, anche ammettendo di conservare dei residui ineliminabili di maschera sui nostri volti, quel tanto che ci permetta di pensarci ancora come soggetti, è forse possibile recuperare il nostro volto proprio nello sforzo di incrinare la maschera, di decostruirla, di frantumare il processo che ci solidifica in caratteristiche specifiche e ben riconoscibili. In sintesi, se la maschera ci individua, il volto resiste all’individuazione. Nella prassi delle nostre città, recuperare la dimensione del volto significa quindi ridare spazio alla marginalità e a ogni forma di resistenza agli stigmi che la maschera implica: significa guardare negli occhi la malattia mentale, il rifiuto del binarismo sessuale, la critica a un sistema produttivo asfittico e sempre più orientato a generare scarti contro cui orientare le pulsioni di esclusione e violenza.
Pur nella consapevolezza delle maschere che indossiamo, infrangerle significa riscoprire ciò che di più umano vi è in un volto: resistere.
CLAUDIO TARDITI, PhD
Professore Associato di Filosofia della Comunicazione, IUSTO University (Istituto Universitario Salesiano Torino)
Responsabile del Dipartimento di Comunicazione.
Dopo il dottorato di ricerca presso le Università di Torino e Paris-IV Sorbonne, dal 2009 al 2018 è stato assegnista di ricerca presso il dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino e nel 2013-’14 Visiting Researcher presso la Radboud University Nijmegen (Olanda). Le sue ricerche vertono sulla tradizione fenomenologica e sulle molteplici ibridazioni con le scienze umane e cognitive, con particolare attenzione alla teoria dei sistemi complessi, attraverso cui propone una rilettura delle tecnologie emergenti. Attualmente lavora ad un approccio fenomenologico alla comunicazione, mostrando le implicazioni comunicative della teoria husserliana dell’intersoggettività e il suo sviluppo in senso sistemico. Autore di varie monografie di carattere fenomenologico e di più di quaranta articoli su riviste nazionali e internazionali, ha all’attivo molte partecipazioni come relatore a convegni internazionali in Europa, Canada e USA.