“Caro compagno, ti scrivo…” – Francesco Antonioli

Cara E.,

se c’è una cosa che manca in questo nostro nuovo mondo digitale è scrivere lettere. Scriverle a mano, dedicare del tempo a sé e all’altro per riflettere, tenere traccia, raccontare, chiedere, aprire il proprio cuore, magari piangere tra le parole.

Te lo ricordi, com’era negli anni ‘80 e ‘90? C’era il telefono, quello grigio con la rotella, per parlarsi, ma non potevi stare ore a quella cornetta e non potevi dirti tutto, nell’angolo della sala tra tua madre che passava fingendo di fare altro e tua sorella che ti ascoltava senza pudore. E allora, ti salvavano le lettere, dove potevi riversare tutto, dalle scemenze più folli, ai desideri inconfessabili, dall’amore matto alla rabbia più cupa. Una leccata alla colla della busta, una al francobollo e quel pezzetto di te viaggiava fino a destinazione, dove qualcun altro, attendeva sbirciando la buca delle lettere o si sorprendeva trovando quel rettangolo di carta che profumava di altrove.

So che senti lo stesso e molti, sentono come noi. Ecco allora, diamo voce e spazio a questa nostalgia. Inauguriamo oggi “Caro compagno, ti scrivo…”. la rubrica delle lettere ai nostri compagni di viaggio e di vita, persi, ritrovati, lasciati, pensati. E lo facciamo con una penna che di scrittura ne sa tanto e ci regala le sue parole per un amico del tempo che fu: Francesco Antonioli, giornalista, scrittore, uomo di pensiero e di cuore, di numeri applicati alla vita, di progetti che cercano strade e connessioni di senso.

Buona lettura, e buona ispirazione per scrivere quella lettera che è nella vostra penna da chissà quanto tempo!

Chiara

Caro Paolo,

Ricordi? Maturità nell’ afoso luglio 1981, l’orale due giorni prima del matrimonio tra Diana e Carlo. Abbiamo vissuto tredici anni insieme, dalla prima elementare nel 1968 all’ultimo anno del liceo classico. Affiatati e divertiti: io più sgobbone, tu più elastico e geniale; io studiavo di più, tu di meno, ma prendevi sempre voti migliori dei miei, maledetto. Non ti ho mai detestato per questo, anche se sul momento mi bruciava parecchio.

Ci siamo un po’ persi. Tempus fugit. Me ne accorgo adesso, con i figli grandi e già fuori casa, addirittura sposati. È sempre la Vigilia di Natale o di Ferragosto, non mi raccapezzo talvolta; è un ciclo velocissimo da dicembre ad agosto e da agosto a dicembre. Sempre più veloce. Avevamo sogni e idee divertenti. Condividevamo qualche sigaretta (tu poi ci hai dato dentro molto), birrerie fumose che ti lasciavano addosso l’odore di patatine, ma anche il vinile, come “Making Movies”, il 33 giri dei Dire Straits (anno 1980) comprato a metà con le lire contate tirate fuori dalle tasche dei jeans, questa settimana lo tieni tu, la prossima io.

Tu eri un sinistrone, io un po’ meno. Tu studiavi testi pazzeschi di filosofia, coltivavi con intelligenza l’ateismo anticlericale, io un po’ meno. Però ci confidavamo le sofferenze in amore. Eravamo delle educande, vedendo ciò che succede oggi. Non lo so, francamente, se immaginavamo un mondo futuro, però intendevamo la militanza in un doposcuola di quartiere nel centro storico della città (aiutavamo i ragazzi nei compiti, li portavamo in gita o ai campi-scuola) come una sorta di rivoluzione sociale.

Io non sapevo che cosa fare da grande, forse tu un po’ di più. Sei diventato un cervellone della fisica, io ho faticato perdendo tempo all’università perché ritenevo più importante il volontariato e il servizio civile come obiettore di coscienza. Una battaglia contro il sistema e contro i genitori: che incazzatura lo scoprire di avere dei difetti simili a mamma o papà. All’epoca. Adesso, che non ci sono più o che se ne stanno andando, ho imparato a voler bene a questi limiti e, anzi, li accarezzo come ricordi preziosi dentro di me, come un dna da custodire con equilibrio. Si cambia, con gli anni.

Mi piacerebbe parlartene, ma ci siamo persi, anche se indirettamente ci teniamo informati sulle nostre vite. Eri venuto a casa poco dopo il matrimonio mio e di Madda: avevi portato una buona bottiglia di whisky, ne avevo bevuto un po’ e mi ero addormentato sul divano, che figura di merda.

Lo ammetto. Non avrei mai immaginato di vedere una creatura come Trump alla Casa Bianca, soprattutto il suo bis. E, se per questo, anche un rozzo troglodita come Salvini al governo. Per fortuna, e l’ho imparato con il mestiere di cronista, c’è in realtà un Paese molto più bello, fatto di relazioni, buona solidarietà e senso civico, tutto il contrario della gazzarra che sgorga dai palazzi dei partiti. Non avrei mai immaginato, caro Paolo, che avremmo in qualche modo rimpianto i protagonisti della prima Repubblica, quelli delle tribune politiche con Ugo Zatterin che ogni tanto ci ripropone Blob.

Sono contento della mia vita. C’è stato un periodo in cui rimpiangevo di non avere intrapreso certe strade. Ma sbagliavo. Ho potuto fare tanto e, anzi, dovrei ringraziare. C’è la storia con mia moglie che funziona da oltre 35 anni: 35 anni, un’eternità filata in un attimo, con la meraviglia dei figli a cui cambiavi il pannolino e il giorno dopo sono adulti e in giro per il mondo. Mi sfottono, ci sfottono certe volte, perché siamo boomer. È vero e non lo nego. Sostengo Dalla, De André, il Led Zeppelin e i Lynard Skynard con convinzione; non mi piacciono quelli che cantano debosciati “slengando” sasso, stasso, adasso, invece che sesso, stesso e adessso, cazzo. Ci sono cose che restano e altre che se ne vanno, perché fatue.

Ecco, la fatuità. Che storia la spiritualità, per me. Come tanti di noi sono stato cresciuto con il catechismo, cioè a pane e sensi di colpa. Ho fatto molto nel volontariato di ispirazione cristiana, ma mi è cambiata la prospettiva quando mi sono trovato spiazzato – nel lontano gennaio 1982 – perché ospite dei monaci cistercensi all’isola di Lerins, davanti a Cannes, dove ho assistito alla vestizione di un giovane monaco che aveva scelto di farsi inghiottire per la vita in convento.

Ho sempre avuto una spiritualità di testa e poco di cuore, caro Paolo. Senso del dovere e di appartenenza. Ma quand’è che ti fai vivo per parlarne, porca miseria? Poi, in età più adulta, mi sono fatto prendere da un’inchiesta in giro per il mondo sugli ultimi eremiti viventi. Mi hanno sconvolto, cambiato la prospettiva. Più recentemente, tuttavia, un’altra inchiesta sugli abusi piscologici su ragazzi e ragazze da parte di alcuni pretacci mascalzoni, mi ha fatto piombare in un abisso di indignazione. C’è bella gente nella Chiesa di Francesco, ma anche della gentaglia pessima, sia laici sia sacerdoti.

Ho pensato che tra le grinfie di quei disgraziati plagiatori avrebbero potuto finire i miei figli e ho provato persino paura. Sono cambiati gli scenari, alcuni sogni che avevo – una società più giusta, per esempio – certo non si sono realizzati. Sono migliorate alcune condizioni, nonostante qualche cretino sia arrivato ad affermare che in Italia è stata abolita la povertà…

Alla fine, però, contano i porti sicuri. Cioè l’autorevolezza degli esempi, che sono poi storie di buone relazioni e di memoria, ciò a cui il villaggio digitale rischia di non dare più cittadinanza. In questo non bisogna tradire i giovani, che cercano autenticità, pronti a dare l’anima per una buona causa, come sempre. Non amano la falsità e il perbenismo. Spesso e volentieri, purtroppo, il problema siamo noi. Nostro figlio, che ha scelto cocciutamente di essere insegnante al liceo con passione, eroe moderno, ci racconta sovente che i problemi più grandi li ha con i genitori, non con gli allievi.

C’è tanto da fare. C’è molto di cui parlare, caro Paolo, e il tempo è sempre meno e vorrei utilizzarlo bene.

Fatti vivo, ti voglio bene come tanti anni fa.

Francesco

Autore: Redazione

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