Il treno va a Mosca è un lavoro importante, un documento storico che regala all’eternità (questo fa il cinema, no?) immagini altrimenti destinate all’oblio. Non so se Federico Ferrone e Michele Manzolini siano partiti con queste intenzioni ma è senza dubbio qui che sono arrivati.
Il film è sostanzialmente un’intervista a Sauro Ravaglia, emiliano ormai ottantenne che nel secondo dopoguerra andò con un manipolo di amici a Mosca per partecipare al Festival Mondiale della Gioventù… comunista naturalmente.
Solo che Sauro e soci avevano dietro due telecamere 8mm e e una macchina fotografica e qui portarono indietro una quantità di materiale video impressionante.
Nel film viene fuori tutto, dalle difficoltà del viaggio, al sogno, alla magia di quel viaggio. E poi naturalmente l’idea del comunismo, allora ampiamente condivisa, e la possibilità di andare lì dove era stata applicata, in quella Unione Sovietica mitizzata da milioni di italiani, una specie di paradiso. E viene anche fuori la delusione per alcune delle cose viste a Mosca, o meglio nelle campagne.
Ma soprattutto c’è la gioia, la condivisione, una marea di giovani con una speranza da portare avanti.
Poi al ritorno in Italia Sauro portò in giro per l’Emilia le cose che aveva ripreso, perchè tutti volevano vedere l’URSS elui era l’unico che poteva mostrarla.
Curioso l’intero documentario raccontato con l’accento dello stesso Sauro, fortemente emiliano, perchè lui in persona che legge i testi del film.
E ancora il cerchio che si chiude, con Sauro che riprende i suoi viaggi, vola in Algeria per appoggiare la rivoluzione, fino alla notizia della morte di Togliatti, momento in cui sente il bisogno di tornare a casa e capisce che in quel momento un momento storico si è chiuso e forse intuisce che quel sogno non si realizzerà mai.