Un grande respiro poetico si dipana nelle scarne eppur dense pagine che compongono La linea di minor resistenza.
Carlo Fruttero, scrittore e traduttore, nato a Torino nel 1926, è noto soprattutto per i bestseller scritti con l’amico Franco Lucentini, in un sodalizio nato all’Einaudi alla fine degli anni Cinquanta (due per tutti: La donna della domenica e A che punto è la notte). “La ditta” firmò insieme anche articoli, traduzioni, e curò per venticinque anni la collana di fantascienza “Urania” della Mondadori.
Dopo la traumatica fine di Franco Lucentini, Fruttero tornò alla pubblicazione di opere narrative con Donne informate sui fatti, a cui seguirono Ti trovo un po’ pallida, il racconto per ragazzi La Creazione, il libro in parte autobiografico Mutandine di chiffon e l’ultimo, La patria, bene o male, scritto con Massimo Gramellini.
La figlia Maria Carla è stata testimone della nascita di La linea di minor resistenza, scritto di getto, «senza pause, senza incertezze […] una ballata lunga una vita, la sua vita» e per volontà dell’autore pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio di quest’anno.
«L’avevo in testa da vent’anni, ma non ero mai riuscito a scriverlo. Forse perché non era ancora il momento». Il momento delle riflessioni ultime, che sfogliano i mille dettagli attraverso i quali seppe rendere vivida nelle sue pagine la borghesia torinese, con le sue peculiarità e gli aspetti universali, per arrivare alla radice del viaggio di ognuno noi.
La linea di minor resistenza è in natura la via seguita dalla materia per evolvere, ne è esempio l’acqua che tende ad andare verso il basso se non diversamente incanalata.
Anche Jack London ne La crociera dello Snark ne fa menzione: «Nessuna spiegazione riesce a convincerli che in realtà stiamo seguendo la linea di minor resistenza, ossia che metterci per mare con una barca è per noi molto più facile che rimanere sulla terraferma […]. Non riescono a uscire da loro stessi quel tanto che basti per capire che la loro linea di minore resistenza non è necessariamente quella degli altri».
Nell’opera di Fruttero la linea di minor resistenza assurge a protagonista e si materializza negli acquerelli di Guido Della Casa: ai piedi di una rocca assediata, mentre guida soldati sulle montagne che vanno incontro a bagliori di guerra o ne fuggono, strappando attimi di libellule tra scempi di corpi e fame.
Sono «in marcia da gran tempo, stanchi ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme» i protagonisti di questo “poemetto”. Procedono «a ginocchi piegati, schiena curva, in silenzio […], l’occhio attento, l’orecchio ben spalancato al fragore della battaglia laggiù».
«Nello smeraldo di un prato» si apre per loro uno squarcio di illusoria pace. «Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti non lo era. In mezzo a noi languidi – appena un fruscio, un taglio nel bisso – precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi, più di una volta combattere sopprimendo il tremito, richiamando l’impigrito furore a denti stretti, l’urlo pronto a scoppiare, il braccio mulinante a caso nella mischia». E conclude, con brevitas fulminante: «Belve, tutti».
In questa guerra di ogni tempo, che è realtà e metafora, e «polverosi e ossuti» si combatte armati di una «daga incrostata», di «frecce scarse nella faretra», la quotidianità del cibo da racimolare si affastella ai morti senza sepoltura e alle riflessioni dei superstiti, che «oltre quegli ultimi cardi» stanno per giungere al traguardo comune, «lo stagno immobile».
«Soltanto una fuga è stata tutta la nostra marcia per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma non è stato proprio così, sempre così. C’erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga spensieratezza, di euforico abbandono, l’ombra del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva di correre più in fretta del sole, della vita».