La catastrofe nipponica è immane. Basterebbe a gelare il sangue al mondo. E a dare, nel bene e nel male, una lezione straordinaria a tutti.
Avrebbe potuto inchiodarci, per dolore e sgomento. Animarci alla solidarietà. E poi indurci, finalmente, a svolte epocali.
E invece, come spesso accade nella sciagura, l’uomo civile ed evoluto del 2011 ha ancora perniciose risorse da spendere in produzioni di stupidità, grettezza, perfidia, superbia. Da quello che manovra speculazioni e operazioni di borsa, a quello che studia i possibili spazi ghiotti di un mercato da ricostruire, all’uomo che ha preso subito le misure e i rapporti tra distanze geografiche e pericolo radioattivo, a quello che ha subito dirottato il volo delle vacanze. A quello che, ancora in sprezzo della supremazia assoluta della natura, pontifica in pieno delirio di onnipotenza.
E a quello, diffuso come il rischio di contagio in tempo di peste, che tranquillo davanti allo schermo di un pc o di un televisore finge strazio e partecipazione emotiva ma ha in testa tutto, proprio tutto, tranne il bisogno e il desiderio impellenti di ritrovare il bandolo della matassa…
A me l’altra faccia della tragedia terrorizza.
E mentre seguo attimo per attimo lo strazio del Giappone mi assale l’atroce dubbio che sia tutto inutile: anche quella terribile lacerazione non riesce a riconciliarci umilmente con la vita.
Anzi.
Non solo ci improvvisiamo esperti in nucleare. Conviviamo con una assurda felicità nel fiato corto di una primitiva strafottenza. Andiamo avanti quasi come se nulla potesse davvero capovolgere il cielo. Non rammentiamo neanche che tutti dobbiamo morire, accidenti.
Questa non è una lagna sfiduciata e disfattista. Non sono io a profetizzare scenari di rovina, quello che dovrebbe scuoterci è già davanti ai nostri occhi, è nella nostra esistenza di tutti i giorni. Se mai ora vorrei solo che lo strazio di tante, troppe, stolte certezze ci aiutasse a scrivere la cronaca di un nuovo, illuminato costume.