Un Nobel scarso in matematica

Maria Teresa Martinengo e la carriera scolastica di Rita Levi Montalcini

Lo dirà, Rita Levi Montalcini, agli studenti che oggi e domani saranno ad ascoltarla al Teatro Carignano e a Palazzo Nuovo: «Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare e non temete niente. Non temete le difficoltà…». Tra le difficoltà incontrate dal Premio Nobel per la Medicina, che in questi giorni viene festeggiata nella sua città natale in occasione del centesimo compleanno, ce n’è una, narrata in più occasioni: studi sbagliati per il suo carattere e per le sue aspirazioni. Tanto sbagliati (la scelta era stata del padre) da consigliare ai genitori, al terzo anno, di allontanarla – con la gemella Paola – dalla Scuola superiore femminile Margherita di Savoia prima della fine dell’ultimo trimestre. La futura ricercatrice, allora tredicenne, stava attraversando un periodo sfortunato dal punto di vista del rendimento, anche in matematica e scienze. Potrebbe parlarne lei stessa, in questi giorni: una fase calante – appena accennata da Paola Gasco, preside dell’ex magistrale Berti, istituto che conserva l’archivio della “Margherita di Savoia” – causata, probabilmente, dal disinteresse che provava per quegli studi.


«La Scuola municipale dove Rita Levi Montalcini ha trascorso gli anni equivalenti all’odierna media era stata fondata nel 1864 ed era destinata ad accogliere “fanciulle di famiglie agiate”, come abbiamo trovato scritto in un documento del 1889. Vi entrò trent’anni più tardi, ma lo stile era rimasto lo stesso: anche nel 1920 una delle discipline fondamentali era Lavori femminili», racconta la preside che domani, con il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Francesco De Sanctis, consegnerà alla senatrice le copie dei registri degli anni 1919-1922. La professoressa Erica Bassignana, che cura l’archivio storico del Berti e ha scoperto le tracce della scienziata, spiega che «la Margherita di Savoia era “complementare”, preludeva cioè all’iscrizione all’Istituto Femminile, percorso che non prevedeva l’accesso all’Università». Nel documento si legge che lì si istruivano le «fanciulle delle famiglie agiate, in modo da farle, senza particolare riguardo a professione, donne convenientemente culte in quella parti del sapere che si attengono alle varie manifestazioni della vita, onde potessero riuscire spose desiderate, buone madri di famiglia». Ciò che Rita Levi Montalcini adolescente già sentiva di non voler diventare.

Nell’autobiografia preparata in occasione del conferimento del Nobel, nell’86, la scienziata riassume la vita dei figli di Adamo Levi e di Adele Montalcini, un maschio e tre femmine: «Quello della nostra famiglia era uno stile di vita tipicamente vittoriano, tutte le decisioni erano prese dal capofamiglia. Nostro padre ci amava profondamente e aveva un grande rispetto per le donne, ma era convinto che una carriera professionale avrebbe interferito con i doveri di una moglie e madre. Per questo aveva deciso che tutte noi – Anna, Paola ed io – non ci saremmo impegnate in studi che potessero aprirci la strada ad una professione e che non ci saremmo iscritte all’Università». Poco oltre, la futura scienziata ricorda come l’indiscusso talento della gemella fu il lasciapassare verso la libertà di diventare artista. Per lei fu più difficile. «A vent’anni mi resi conto che non avrei potuto adattarmi al ruolo femminile che mio padre aveva previsto per me e gli chiesi il permesso di impegnarmi in una carriera professionale». In otto mesi la giovane Rita Levi Montalcini colmò le lacune in latino, greco e matematica, si diplomò e si iscrisse alla Facoltà di Medicina…